A cura di Fulvio Aniello
Chi è Chiara Ciavatta?E’ una donna di quasi 36 anni, con alle spalle 14 anni di anoressia, bulimia e binge. Ovvero con alle spalle una lunghissima sofferenza, fisica ed emotiva, oscillando più volte tra 36 e 90 chili, e tra depressioni e angosce fin dall’infanzia, e un’altrettanto lungo percorso di comprensione di cambiamento senza il quale non sarebbe sopravvissuta. Oggi è una persona che, sulla propria pelle, ha capito l’essenza di queste patologie, e ha scelto di aiutare le tante, troppe, persone che ne soffrono, ad uscirne.
Da quando e perchè sei diventata Chiara Sole? A 18 anni, dopo un tentato suicidio, mi feci un tatuaggio sul polso raffigurante un sole stilizzato, e da li molto spontaneamente è nata ChiaraSole. La guarigione era ancora lontana, mi aspettavano anni di cure, ma non ero morta, aveva prevalso la vita.
Quanto è stato importante il tuo incontro con tuo marito Matteo Mugnani? Quando ci siamo conosciuti, eravamo entrambi impegnati in progetti sanitari condivisi con altri colleghi, ma di cui non eravamo veramente soddisfatti, perché avevamo in mente un progetto diverso, più all’avanguardia, più coraggioso nell’avvicinarsi alle richieste di chi chiede aiuto, e con una finalità educativa e culturale che spesso manca. Abbiamo avuto la fortuna di incontrare, l’un l’altro, qualcuno che aveva in mente lo stesso inedito progetto, e abbiamo avuto il coraggio di lasciare tutto e investire su di esso. A posteriori si è confermata una scelta molto saggia. Poi alla collaborazione lavorativa si aggiunta l’unione privata.
ChiaraSole e il Dott. Matteo Mugnani
Oltre ad essere tuo marito, che ruolo ha il Dott. Matteo Mugnani? Lavora come psicologo a Mondosole, e condivide con me l’intero progetto MondoSole.
L’idea del centro Mondosole?Io come persona che ha sofferto di queste patologie e Matteo come psicologo, dopo un’accurata analisi delle differenze tra le richieste delle persone che stanno male e dell’offerta esistente nel panorama sanitario, abbiamo progettato un centro per colmare questo gap, che si posiziona a metà strada tra il ricovero ospedaliero o la chiusura in una comunità, spesso invasivi e che non preparano al reinserimento sociale successivo, e la classica cura individuale a cadenza settimanale, che spesso non ha la forza di contrapporsi alla distruttività compulsiva dei sintomi anoressico-bulimici. Abbiamo puntato molto sulla mediazione e consulenza ai familiari e ai partner, troppo spesso esclusi dalle cure e disinformati su come poter aiutare la riabilitazione dei loro cari, e di essere presenti con le attività di cura, riabilitazione e reinserimento sociale ogni giorno, 12 mesi l’anno, per controbilanciare quel senso di auto-isolamento e di profonda solitudine che pervadono queste patologie, così da poter aiutare non solo a reimparare a mangiare, ma soprattutto ad imparare a vivere nel sociale, a contatto con la realtà, a vivere serenamente tutte le sfere della vita.