E’ una chiacchierata desiderata, molto desiderata, cercata e fortemente voluta questa con Gentucca Bini. Perché devo dirlo che sono affascinato, totalmente affascinato da questa donna, architetto, designer, stilista, creativa, progettista, viaggiatrice, cosmopolita.
Una donna che il suo lavoro lo sa fare alla perfezione, e che crea, crea, crea in continuazione, progetta, plasma, si evolve, indirizza, tramuta, sviluppa tutta la sua geniale espressione creativa sempre in qualcosa di fortemente speciale, fortemente singolare, in mille progetti, tutti diversi, tutti di successo e tutti con quel plus in più che fanno di lei davvero una vera creativa.
Ma questa chiacchierata è anche il racconto di una vita condivisa con persone speciali, con una famiglia speciale, eclettica, “artistica”. Una famiglia circondata anche di amici speciali che Gentucca Bini – ancora piccola – vedeva muoversi nella sua casa d’infanzia. Una casa dove gli intellettuali, il talento, il teatro, l’arte “in toto” e l’amore per questa, erano la vita e l’atmosfera e ancora lo sono nel suo spazio – che fu Teatro di posa – di Dario Fo e Franca Rame dove lei progetta e lavora. Ho incontrato Gentucca Bini questa settimana per Focus On.
Come si cresce e ci si forma in una famiglia dove si respira fin da piccoli una creatività così forte? Che ricordi ha della sua infanzia? Sono cresciuta in una famiglia molto eclettica e divertente. Mio padre e i suoi fratelli sono gli architetti che negli anni ’70 hanno creato tutta l’immagine e le architetture di Pierre Cardin nel mondo. Mia nonna, una donna eclettica che negli anni 50, insieme al secondo padre di mio padre, un sarto da uomo napoletano, aprì il suo atelier di alta moda in via Montenapoleone a Milano in una grande casa dove ho vissuto e sono cresciuta con loro e i miei genitori. Era molto amica dei grandi artisti, da Duchamp a Man Ray, da Fontana a Baj, a Pomodoro. Mio nonno, suo primo marito, è stato il primo ballerino alla Scala negli anni ‘50 e poi attore di teatro. Dopo teatro le compagnie teatrali arrivavano a casa nostra per cena. Ricordo le cene con Carmelo Bene che parlava parlava e io piccola con la testa sul tavolo stravolta dal sonno ad ascoltare, ricordo le buonanotti a letto di Vittorio Gassman, che era super affettuoso, le risate interminabili con Mario Scaccia, il più caro amico della nonna. La nostra casa è sempre stata molto frequentata da artisti, tutti amici di famiglia, tutti con personalità complesse e affascinanti. Sono cresciuta in questo contenitore abitato da intellettuali abituati a tradurre fattivamente le loro creazioni, persone che hanno realizzato i loro progetti non tanto per ambizione, quanto per voglia di concretizzare praticamente le loro idee. Ho assistito alla nascita di progetti che hanno segnato la storia dell’arte, del teatro, dell’architettura contemporanea, sempre frutto di condivisione, confronto, entusiasmo e leggerezza, sintomi di grande intelligenza. Fu in questo contesto che i miei nonni crearono una collezione a 4 mani con i loro amici artisti, Fontana, Baj, Pomodoro, Scanavino, Del Pezzo, creando il primo gesto di connubio effettivo tra arte e moda che fu esposto al Musée de l’Objet du Louvre a Parigi, restando nella storia.
Lei è architetto. Un forte interesse per la gestualità e la progettualità. Oltretutto ho letto con molto interesse, che progetta e lavora in uno spazio che è stato il Teatro di posa di Dario Fo e Franca Rame. Ci racconta gli inizi del suo lavoro, del suo percorso creativo? E poi come lo ha sviluppato negli anni? Ma anche di quelli che sono stati gli incontri speciali – soprattutto a livello internazionale – penso a Karl Lagerfeld o ad Andrè Leon Talley. Il mio sogno era quello di fare l’attrice, ma non funzionò, poi ballerina, ma mio nonno intuì da subito che non avrei avuto la corporatura fisica adatta e quindi, mi scoraggiò. Finché un giorno mio padre mi ha detto: “Adesso decidi cosa vuoi fare. Scegli quale strada intraprendere e poi, una volta che ti sei affermata in quel campo, potrai mescolare le tue passioni. Ma un punto di riferimento devi averlo”. Quindi ho scelto di fare Architettura al Politecnico perché mi permetteva di unire la rappresentatività di un gesto, la cura dell’immagine, la progettualità complessiva delle cose come base di tutto, il teatro, la scenografia, la fotografia, la realizzazione di un’idea. Poi un Master in Disegno Industriale a Parigi, alla prestigiosa scuola di Les Ateliers, dove mi sono occupata di disegno industriale, progettando di tutto. Anche lì ho sempre cercato di sviare da quello che facevo, dai confini che mi venivano dati, ed è stato estremamente appassionante e utile per la mia formazione. Da subito ho sempre cercato un progetto a 360°, che comprendesse non solo il prodotto, ma anche i suoi effetti nell’uso, il modo di esporlo, mostrarlo, comunicarlo. Il fatto di essermi inserita nel sistema moda rispondeva all’obiettivo preciso di acquisire visibilità. Per il resto progettare un vestito o un tavolo mi dà la stessa emozione, non è una questione di tipologia o di ambito. Non mi emoziono davanti a una gonna in quanto tale, ma davanti a un progetto ben riuscito. La moda è il contenitore più completo e vicino al mio bisogno di unificare e mostrare vari aspetti della progettualità, con scadenze veloci ogni sei mesi.
Ho iniziato facendo cappelli. Da subito non volevo presentare un prodotto ma delle idee, la mia creatività senza alcuna velleità di tipo commerciale. Allora ho pensato che il punto più facile su cui progettare qualcosa, senza pensare al lato funzionale è la testa e mi sono concentrata su quella. Voleva dire non essere vincolata dal punto di vista della produzione e della funzionalità pratica e usare la testa come una vetrina sulla quale esporre delle idee. La testa è un piedistallo che ha uno spazio immenso intorno da progettare. La mia prima mostra fu una mostra di cappelli, con alcuni amici fotografi, registi, stilisti, tutti molto giovani e alle prime armi, alla quale invitai tutti gli amici di famiglia giornalisti, pubblicitari, addetti ai lavori. Meno mezzi ho avuto e più idee mi sono venute nella vita. In questa prima mostra abbiamo invitato tutti i giornalisti che conoscevamo, i quali hanno cominciato a pubblicare sui giornali i nostri lavori. Quindi è diventata un’operazione di marketing e per anni mi sono concentrata su quello. Inoltre, proprio perché il mio progetto non era un prodotto, era estremamente più facile da pubblicare tra gli editoriali delle riviste che sono slegati da vincoli di mercato. Mentre vivevo a Parigi, mi è capitato di diventare per qualche anno assistente a Vanity Fair di André Leon Talley. André si è innamorato del mio modo semplice di proporre quello che facevo e sono stata sua assistente per tutti i servizi fotografici che faceva per Vanity Fair e per Vogue a Parigi. E’ stato lui che mi fatto incontrare Karl Lagerfeld al quale mi sono presentata col mio book leopardato di peluche nel quale avevo infilato dentro il Cappellinox, un cappello fatto di una paglietta di Inox, di quelle per lavare i piatti. L’avevo progettato per un Salone del Mobile dove mi ero messa in mostra seduta su una sedia con in testa questo cappello fatto con la paglietta di inox, all’interno di un ambiente completamente rivestito da centinaia di queste pagliette (che avevo chiamato “Ambientinox”), come se fossi una casalinga impazzita. Quando Lagerfeld l’ha visto, io l’ho indossato e lui mi ha incaricato di realizzarne una serie per la sua successiva sfilata con Chanel. Da lì hanno cominciato a chiamarmi Blumarine, Ferré e tanti grandi stilisti. Avevo 25 anni e intanto continuavo a studiare architettura. Nel ’97 è stata fatta una grande mostra a Firenze che si intitolava Arte e Moda CURATA DA GERMANO CELANT E FRANCA SOZZANI dove sono stati esposti i vestiti che I MIEI NONNI AVEVANO creato e realizzato nel 61 con i loro amici artisti, Fontana, Pomodoro, Baj, Scanavino, Del Pezzo… Fu un gesto rivoluzionario per la moda, perché la prima volta in cui Arte e Moda si fondevano realmente. Furono esposti al Musée de l’Objet di Louvre a Parigi nel 61 e nel poi nel 97 ce li chiesero per Arte e Moda alla Biennale di Firenze e per la stessa mostra al Guggenheim a New York. Durante la vernice indossavo uno di questi vestiti, un modello che non era stato esposto. Un visitatore giapponese entusiasta mi chiese di acquistarlo e io gli risposi che non era in vendita. Ma lì è nata la scintilla e ho pensato di rifare i vestiti, che in effetti potevano avere un senso anche per il mercato contemporaneo. Così NE ho realizzati dei NUOVI, li ho messi sottovuoto e proposti nei bookshop dei musei dove gli originali erano stati esposti. Ricordo ancora che dopo aver confezionato i vestiti sono andata dal mio salumiere per farmeli mettere sottovuoto e così sono partita per New York, per partecipare all’inaugurazione della trasferta americana della mostra e proporre alla curatrice del Guggenheim i NUOVI ABITI che sono stati molto apprezzati. Era un gesto a metà tra moda e design, il packaging sottovuoto creava un equivoco spiazzando il cliente finale è inducendolo a pensare se stesse comprando un oggetto da appendere o un vestito da indossare…molto divertente! Nel 2003 la Camera della Moda mi ha inserito ufficialmente nel Calendario per presentare la mia collezione. Nel 2004 mi hanno invitato a Roma durante Altaroma dove ho esposto un vestito di 100mq “un gran bel vestito” grande esattamente come la stanza che mi avevano messo a disposizione. Tra 2006 e 2009 sono stata Direttore Creativo del marchio Romeo Gigli. Disegnare i marchi degli altri è come continuare il gesto di un altro designer, una storia diversa dalla tua, è come chiedere a qualcuno di punto in bianco di diventare Dostoevskji e continuare a scrivere romanzi come i suoi! Paradossale e nello stesso tempo appassionante. E’ un’esperienza formativa che certamente rifarei, ma forse con uno spirito più critico, addirittura polemico verso questo stesso meccanismo. Sono stata direttore creativo di MCM in Corea e di Mantero seta a Como, con cui ho seguito tutto il rilancio del foulard come icona del guardaroba, ridisegnando il foulard sia come formato, sia come materiali, ma soprattutto come format grafico, attraverso l’intreccio delle disegnature storiche di archivio, preservando la memoria e creando un linguaggio contemporaneo. Ora continuo la mia collezione con il mio marchio Gentucca Bini e seguo la direzione creativa di altri marchi.
Come nasce un’idea-progetto nella sua testa? Da dove prende l’ispirazione? E come riesce a trovare nel suo lavoro, il giusto equilibrio tra ricerca, spiccata originalità e un prodotto che sia comunque vendibile? Questo è il mestiere della progettista! Il bravo progettista riesce a trovare gli equilibri necessari all’obiettivo finale, qualsiasi esso sia. Personalmente parto sempre da un sogno, ragionando per assurdo e poi declino il mio sogno in realtà attraverso i miei strumenti progettuali e prestando molta attenzione al contesto in cui il progetto dovrà vivere. Solo così il prodotto finale manterrà quegli ingredienti emozionali che ne faranno un oggetto irresistibile!
Ci racconta dei suoi due bei progetti: quello per Yoox.com e The charm Of the Uniform? Come nascono Con Yoox è nata una collaborazione speciale. Un’edizione speciale di felpe nonsense, ricamate con soggetti più diversi che arrivano dai miei ricordi e da una sana dose di leggerezza! È stata una preziosa collaborazione con professionisti eccellenti con cui è nato un super progetto che sta avendo un notevole riscontro mediatico e di vendita. The charm Of The uniform è un collettivo. Ho radunato 7 amici cari, tutti professionisti, con dei mestieri veri, che oltre all’utilizzo sfrenato del cervello si sporcassero le mani per costruire il futuro. Antonio Mondino, curatore, Pino Pipoli, Art Director e Artista, Luca Cipelletti, architetto, Rafael Y. Herman, artista, Roberto Coda Zabetta, pittore, Sebastiano Mauri, artista e scrittore, Massimo Torrigiani, curatore. Dei veri amici, ognuno dei quali mi ha raccontato che tuta volesse, di cosa avesse bisogno per lavorare al meglio con la mente e con le mani. Ne è uscita una collezione, a più mani, di tute da lavoro e dai contenuti profondi, ma anche leggeri, grazie al prezioso intervento dell’ironia, di chi le mani le usa per rappresentare il proprio pensiero per costruire il futuro.
Gentucca secondo lei, in tempi così delicati, la moda e il design dove sono diretti? Tutte le discipline in cui il presupposto sia la fantasia, come la moda e il design, sono diretti sempre verso condizioni di grande positività. Non vanno sottovalutate e vanno perseguite anche nei momenti più difficili.
Quali sono i suoi prossimi progetti? Da febbraio in poi saranno comunicati…preferisco non parlarne prima! Sono progetti di moda, ma alcuni anche con qualche incursione nel design.
Vorrei chiederle come ultima domanda, che cosa le piace fare quando non lavora… com’è passa il suo tempo quando si rilassa? Mi rilasso lavorando! Il mio cervello non si ferma mai di pensare in maniera progettuale.