10, 100, 1000 Tea Falco. Per essere una classe 1986 ha imparato bene l’arte della trasformazione e gli effetti mimetici del continuo cambiare pelle. Se vuoi che non si veda mettilo bene in vista, dicevano.
Se vi sembrano righe troppo ermetiche per descrivere chi oggi alla fine e’ soprattutto un personaggio televisivo e uno dei nomi più cliccati del web, state confermando la tesi: Tea è sotto i vostri occhi ma chissà quale Tea state guardando. Arrandatavi, direbbe lei come nel video virale con cui risponde a una certa dose di critiche legate al suo personaggio in ‘1992’, e cercatela un po’ più a fondo e un po’ più in là, come fa lei con quasi tutto.
Tea Falco è un’attrice perché con quella faccia non poteva non esserlo ma il sospetto è che sia soprattutto una che si diverte ad arrovellarsi su un punto: come fanno le immagini a rappresentare la vita e le cose e come facciamo noi a accontentarci dei nostri occhi? Se poi delle immagini e degli schermi, con quella faccia lì, diventi protagonista, cosa ci vuoi fare?
Fotografia, cinema e televisione alla fine di questo parlano: di immagini che riproducono, deformano, traducono la realtà. La Tea Falco in mostra fino al 19 giugno a Milano è questa Tea Falco, la Tea Falco fotografa, quella che ha già esposto alla galleria Building Bridges Art Exchange di Santa Monica, California perché quello per la fotografia è probabilmente il primo amore, non lo spin off di una carriera da celebrità in ascesa.
Volete le prove? Nel 2012 Tea recita in con ‘Io e Te’, traduzione cinematografica di uno splendido libro di Niccolò Ammaniti. Tea porta al cinema i colori del nord, le linee morbide del sud e un’assoluta e sincera noncuranza nei confronti degli enormi regali che la genetica le ha fatto. ‘Io e te’ ha la regia di Bernardo Bertolucci, uno che il cinema lo sa fare davvero, ed è punteggiato di fotografie che sono una storia nella storia. Solo per i feticisti dei colophon e dei titoli di coda (facilmente uffici stampa) arriva la scoperta che le foto sono state scattate dalla stessa Tea (e un ‘pure le foto sa fare’ è scappato, che dire).
Eccola Tea, che produce e riproduce forme e facce, che si sveglia fotografa e pittrice, analogica e materica o ariosa e digitale a seconda dei giorni. Che si chiede ‘come sarebbe se’ mentre prende la foto di un corpo, magari del suo, e lo fa a pezzi e lo ricompone. Che spezza ogni linea e armonia per immaginarne un’altra, per raccontarsi che ci sono chilometri di storie e vita e tempo dentro una foglia, una barba, un qualunque oggetto e più è qualunque meglio è.
Tea ci mette la faccia e il corpo, gli esperimenti li fa sopra se stessa, su se stessa – unica e universale semplicemente perché umana. Tea, alla fine, prova a vedere di nascosto l’effetto che fa. Se avesse la barba? Se si potessero vedere i percorsi dei pensieri e dei ricordi? Se quegli occhi fossero tanti, si moltiplicassero come gremlins e si potessero sguinzagliare in giro per il mondo? Tea ci mette il corpo e la faccia perché non sono poi così importanti e li si può rischiare e via con la leggerezza antica di chi è nato in una terra che ha visto e vede troppo per attaccarsi davvero a qualcosa.
Dove succede tutto questo? Fino al 19 giugno succede a Milano, in via Melzo 30, in un gioiello di galleria d’arte allevata da una donna tenerissima e impetuosa di nome Silvia Agliotti. La galleria si chiama ‘gli eroici furori’ non per niente, è un’associazione culturale e cura mostre di arte contemporanea che hanno il loro minimo comune denominatore nella spietata sincerità di chi ama tutto e tutto vuole comprendere.
‘Gli eroici furori’ è una galleria femmina, una galleria che non fa sconti e parla di vita in modo dirompente. Silvia spesso sfida gli artisti a lavorare sulla relazione e a mettersi in relazione attraverso le proprie opere, a raccontare la tensione agonistica fra punti di vista che aspirano a vedere oltre, a farlo anche mettendo in scena lo spartirsi dello spazio della galleria, della sua luce e della sua aria. Pochi pezzi alla volta, due stanze perfette per vagare senza perdersi, un bel cortile interno dove far sgambare i pensieri alla fine.
Ci si sente tutti un po’ a casa lì, i divismi del mondo dell’arte si umanizzano e magari diventano addirittura piccole eccentricità innocue.
Qui abita la mostra ‘L’effetto della causa’, curata dalla stessa Silvia e da Anna Dusi e dedicata interamente al lavoro di Tea. Qui Tea può starci benissimo e coltivare la sua tensione a superare la superficie, che le viene così naturale da non trasmettere alcuno sforzo, né mentre crea le sue opere né mentre ti parla. C’è talmente tanto di lei, fra lei stessa – che è pure parecchio alta -, il suo viso alle pareti, sui fogli, nelle foto al computer che alla fine potresti non notarla, tanto si lascia spezzare e guardare senza opporre resistenza.
L’effetto che fa è l’effetto della causa, il corto circuito nello sguardo che osserva le cose che succedono. Nella spiegazione appesa alla parete ci sono citazioni forti e non immediate, perché è sempre indispensabile una spiegazione anche se, a dir la verità, forse non serve tanto fra le foto di Tea perché quel gioco lì, di scomporre con grazia ogni cosa che vedi e pensarla diversa, quando l’hai capito è un domino e va avanti da solo e che bello se potessimo davvero metterlo in pratica non dico spesso, ma ogni tanto, o almeno una volta.
E’ così che i sandali sporchi di sabbia in vetrina diventano magari il pegno alla Sicilia che sai di portare comunque con te, tanto da non aver paura di perderti neanche se vai a vivere dall’altra parte del mondo.
Tea fa bene a produrre arte e senso, le viene bene. Fa bene a continuare a cercare l’effetto della causa, magari pensandola nel 1992, che per chi scrive è storia e per lei l’inizio delle elementari. Fa proprio bene a sorprenderci con la sua vita coerentemente confusa e piena di ruoli diversi, così comincia già ad abituarci che alla fine magari davvero dentro a ogni cosa ce ne sono altre mille e allora, se c’è così tanta vita, perché angustiarsi? Brava Tea, ci arrandiamo.