Un giorno apro facebook e vedo la foto di una persona che conosco, che so esattamente quanti anni ha, e salto sulla sedia. La foto è evidentemente antica, ma il viso è il suo, l’abbigliamento tradisce echi da terzo millennio. Indago da par mio e scopro che quella non è una foto, è un esperimento: Carlo Furgeri Gilbert, fotografo anglo-romagnolo trapiantato per nostra fortuna da tempo a Milano, ha deciso di resuscitare una tecnica fotografica di fine ‘800, una tecnica spietata che non ammette errori ma che, forse proprio perché cattura l’imperfezione, aggiunge così tanta poesia e umanità a ogni soggetto da risultare ipnotica.
L’imperfezione può essere, però, solo nel soggetto, perché su tutto il resto Carlo studia con dedizione da archeologo ogni minimo passaggio e applica la sua tecnica a soggetti sempre più vari, con somma gioia di noi curiosi cacciatori di bellezza.
Da venerdì 20 novembre a Venezia ‘Altrove’, preziosa vetrina di moda sartoriale, ospita le fotografie al collodio all’interno di ‘Experience’, una serie di incontri che di volta in volta mescolano la moda con le arti. Per chi ama la moda, la fotografia e la ricerca, ecco la nostra chiacchierata con Carlo.
Cosa succederà a Venezia? Ci sarà una mostra nell’atelier-studio di Altrove dove verranno esposti una serie di scatti al collodio realizzati per l’occasione. Le lastre sono in copia unica e sono dei positivi diretti; non c’è stampa, non c’è negativo, quelle che vedrete appese alle pareti sono le immagini così come sono uscite dalla fotocamera. Un po’ come le polaroid di qualche anno fa, ma su alluminio. Ad accompagnare le immagini, il giorno dell’inaugurazione, ci sarà inoltre una performance musicale di Anna e Marco Trentin, rispettivamente al violino e al violoncello, professori d’orchestra della Fenice di Venezia. Direi un’occasione da non perdere!
Del ferrotipo fotografico e della tecnica del collodio. Di cosa stiamo parlando? Tecnicamente possiamo definire un ferrotipo come un’immagine fotografica in copia unica creata utilizzando la tecnica del collodio umido su una lastra di alluminio. La tecnica del collodio umido fu messa a punto nel 1851 dall’inglese Frederick Scott Archer. Inizialmente fu pensata per creare immagini in negativo su lastre di vetro trasparente per poterle poi riprodurre con la stampa, ma la stessa lastra, se posizionata su un fondo nero, produceva un’immagine positiva che era detta ambrotipo. Le lastre erano però fragili e difficilmente trasportabili, si cominciò così a pensare all’utilizzo di altri materiali che fossero di più semplice impiego giungendo quindi al ferrotipo. La definizione di ferrotipo in realtà non è propriamente corretta; è vero che in principio si utilizzarono il ferro e poi la latta smaltata, però con l’andare del tempo ci si rese conto che questi supporti davano diversi problemi, come la ruggine e il distaccamento dell’immagine, risolvibili appunto utilizzando l’alluminio anodizzato.
Della bellezza. A quali soggetti meglio si accompagna questa tecnica? Cosa significa ‘Alchemical Beauty’? Parlare di bellezza è complicato. La ricerco sempre, in ogni immagine che scatto. Naturalmente cerco la “mia bellezza”, quella che appartiene alla mia storia, quella che magari a un altro non dice nulla. Non esiste il soggetto giusto con la giusta tecnica; esiste il pensiero che per essere tradotto in immagine ha bisogno di una scelta tecnica. ‘Alchemical beauty’ non sono solo i vestiti unici e abilmente “progettati” da Altrove, non è solo l’intensità e la sensualità delle donne che li interpretano ma è l’intero processo di creazione dell’immagine, con i suoi tempi lenti, i suoi rituali e le sue imprevedibilità. Il fotografo in questo caso è come un alchimista che vive in equilibrio tra il mondo della tecnica, e quello dell’insondabile. E’ sulla linea che unisce questi due mondi, che si genera per me la bellezza. Ed è una bellezza unica e irripetibile. E’ la bellezza dell’imperfezione.
Il progetto ‘Altrove’: cosa ti ha convinto ad accettare questa idea? L’incontro con Altrove è stato casuale; ero a Venezia con la mia compagna, a passeggio in quella parte di città più schiva quella che si nasconde al fast food turistico. Abbiamo scoperto questo piccolo atelier e ci siamo subito innamorati dei capi disegnati dalle titolari Alessandra e Miriam. Avevano un taglio molto contemporaneo, erano più vicini al mondo del design che a quello della moda ma i materiali ed i dettagli erano di alta sartoria. Questo mix ci ha stregato e da subito ho proposto di fotografarli con la tecnica del collodio. Mi sembravano perfetti. Alessandra e Miriam hanno risposto invitandomi a partecipare alla loro “experience”. Experience è un contenitore di racconti che raccoglie le storie di Altrove: le storie di chi indossa i loro abiti narrate attraverso forme artistiche diverse: illustrazione, musica, video, performance, fotografia. La parola esperienza non mi ha lasciato più dubbi: scattare una lastra al collodio non è semplicemente fare una fotografia ma è una cerimonia, una specie di liturgia, l’intero processo è una narrazione.
Come hai scoperto queste tecnica e cosa ti ha affascinato? E’ successo un po’ casualmente, quando mi sono reso conto, un paio di anni fa, che il lavoro aveva ormai tolto tutto il tempo alla ricerca, di cui però si nutre. Oggi purtroppo il tempo è un fattore chiave nel mondo del lavoro e sembra che il tempo si contragga fino a scomparire: ‘oggi’ è già troppo tardi e la fotografia non fa eccezione. Avevo disperatamente bisogno di questo tempo, dovevo riflettere su quello che stavo facendo. La fotografia non è solo istinto, non è solamente catturare l’attimo come qualcuno crede ma ha bisogno di spazio e tempo per sedimentare, approfondire, ricercare, se vuole comunicare efficacemente. Avevo bisogno anche di recuperare un rapporto con il mezzo. La fotocamera digitale è uno degli strumenti per produrre immagini, ma non l’unico. Si possono produrre immagini con macchine analogiche ma anche senza macchina, usando per esempio la camera obscura. Ciascuno di questi strumenti produce un risultato differente. Mezzo e fine quindi sono per me intimamente legati. La scelta del mezzo non è solamente un fattore tecnico: il rapporto tra soggetto e fotografo è molto differente se si utilizza una compatta, un iphone o una reflex oppure una macchina di grande formato a lastre. Nel primo caso il soggetto è libero di muoversi ed è meno intimidito, con un banco ottico la situazione cambia. La macchina è più grande, è posizionata su un cavalletto, è incombente, il suo utilizzo è lento e complesso. In questo caso il potere del fotografo diventa assoluto, il controllo totale. Non c’è spazio di manovra per il soggetto. Ogni minimo movimento non previsto causa la perdita del fuoco e l’impossibilità di realizzare l’immagine voluta.
Questa necessità di recuperare un rapporto fisico e lento con la fotografia mi ha portato a riscoprire il lavoro di grandi maestri come Sally Mann e Nadar. Nei miei viaggi nella rete mi sono poi imbattuto in alcuni fotografi che utilizzavano mezzi alternativi al digitale e anche alla pellicola, che erano tornati alla produzione manuale di ciascuna delle fasi di creazione di un’immagine: dal dagherrotipo alla camera obscura fino appunto al collodio umido. Artisti come Adam Fuss che utilizza un processo cameraless – senza macchina fotografica – per creare immagini molto poetiche, Sally Mann, gli Ostermann, pionieri contemporanei del collodio, Ian Ruther un pazzo americano che utilizzando un furgone come banco ottico crea enormi ferrotipi.
Alchemical Beauty – Altrove, Venezia Experience 10# from Carlo Furgeri Gilbert on Vimeo.
La tecnica del collodio umido mi è sembrata subito perfetta per quel che stavo cercando; un processo lento che prevedeva l’uso di una macchina di grande formato, altamente limitante per via della grande quantità di luce di cui necessitava e che spesso consentiva la realizzazione di un solo scatto. Creava oggetti unici e irripetibili ed era totalmente imprevedibile!