Finalmente il giocattolo, il personal commuter, il mezzo per raggiungere il fine, ovvero pedalare, era tra le mie mani. O meglio, tra le mie gambe.

Ed è bellissima la sensazione di sentire il vento tra i capelli correndo con due ruote. Già, perché io appartengo a quella generazione di giovani a cui è stata tolta la libertà di potersi allegramente spaccare la testa in motorino. Avevo appena iniziato a scorrazzare in città con il Ciao del mio papà e zac..! Arrivò all’improvviso l’obbligo del casco.

Naturalmente oggi sono adulta e consapevole e così sono subito corsa da Decathlon a comprare il caschetto per la bici. Ci tengo a proteggere contenuto e contenitore della mia testa. Ma alla prima pedalata è stato bello godersi l’effetto, così come sembrava tanto strano poter svoltare senza azionare la freccia. Insomma, ero su due ruote, ma non in Vespa.

Dopo un paio di curve in precario equilibrio cercando affannosamente il pulsante da spingere, sì, mi sono dovuta arrendere all’idea che la bici non ha nessuna componente elettrica. E non ha neppure lo specchietto retrovisore. È proprio un oggetto primordiale!

Qui è il corpo ad essere motore. Ed anche se in apparenza sono le gambe a giocarsi tutto l’impegno, non c’è muscolo a non esserne coinvolto.

I primi giorni infatti ero basita: come? Fanno male le braccia? Poi ho capito che ero tesa, tesissima. Che la posizione era nuova, che dovevo rilassare le spalle ecc ecc insomma tutto quel mantra che di solito recitano come un rosario i personal trainer. Bello finalmente potersi dare i buoni consigli da sola, come un’alice nel paese delle meraviglie. La bici aiuta a far scorrere il pensiero. O a raccontarsela, dipende.

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Ma andiamo con ordine. Le prime pedalate con la nuova forcella, ben salda al suo posto (grazie ad un’ultima sapiente stretta di Yoda-Giò Pozzo) davano sì una sensazione fantastica, di libertà e plastico dinamismo, ma mi hanno fatto anche capire quanto lavoro ci fosse ancora da fare. Non tanto sul mezzo, quanto sui miei polpacci un po’ troppo rilassati per assomigliare anche solo vagamente a quelli di un ciclista della domenica.

Ho sempre creduto che per farcela nello sport fosse utile figurarsi il proprio corpo nell’atto del movimento che avrebbe dovuto compiere. Un po’ come recitare una parte.

Nel tennis cercavo continuamente di immaginare dove sarebbe andata la pallina e… infatti nella realtà la vedevo mai!

Ma al di là di alcune insuperabili lacune, la tecnica di solito funziona. Così inizio a pensare al movimento fluido e circolare di polpacci-ginocchia-cosce, aiutata dall’accompagnamento ritmico del leggero ticchettio della catena appena ingrassata.

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Ed ecco che subito nella mia testa un po’ spaccona si materializzano eroiche immagini in bianco e nero di un Fausto Coppi sullo Stelvio, mentre lo stantuffo di un vecchio treno si perde nel vortice del vapore in una concitata corsa verso l’infinito. Wow. Funziona! Più che lo Stelvio, potè il treno. Dev’essere l’anima Steam della moutain bike che spinge da sotto la grossolana verniciatura nera per venire alla luce.

Inizio a sentire un piacevole calore che si diffonde dalle gambe fino alla schiena e poi ancora su e su fino a raggiungere le spalle. Che si sciolgono finalmente nel movimento. Sensazioni ritrovate! È la bici, bellezza!
Decido quindi che la mattina dell’indomani avrei affrontato la città con una grande sfida: da casa a ufficio. Una tappa micidiale, altro che Parigi-Roubaix!