Scattare foto ai look più interessanti (o improbabili) che si incontrano per strada è diventata una mania. E’ questo lo streetwear? Oppure può avere senso divertirsi a tornare alle origini del fenomeno, vedere quali erano le caratteristiche fondamentali, capire cosa e come (r)esiste oggi.
Lo abbiamo chiesto a Maurizio Ridolfo in arte Rido, esperto di streetwear, appassionato di hip hop della prima ora, classe 1975. La prima cosa che ci dice è che per percorrere a ritroso la strada dello streetwear bisogna seguire il percorso delle sneaker, vero feticcio dello stile di strada passate da scarpa tecnica e di servizio a punto focale di tutto il look a partire dalla fine degli anni ’70.
La seconda cosa è che lo streetwear si lega strettamente a musica e cinema e diventa la manifestazione di una sottocultura urbana che a poco a poco prende il sopravvento fino a diventare mainstream. Una bella rivincita, certo, ma adesso che lo streetwear è di tutti, come facciamo a distinguere quello autentico? Riscoprendo come era quando è nato, divertendoci a ricostruirlo con quello che abbiamo nell’armadio, trasformandolo in un’idea per un regalo filologicamente corretto per cultori d.o.c.
Back to the roots. Dove nasce lo streetwear? Come diventa un fenomeno di costume? Le coordinate sono Stati Uniti (New York + Los Angeles), anni ’80, ambiente hip hop. La musica è fondamentale perché serve a dare visibilità e spazio allo stile della strada, che già esisteva, solido, con i suoi codici e le sue leggi, ma che non aveva ancora, letteralmente, un palcoscenico. Negli anni ’80 hip hop e rap da fenomeno locale diventano mondiale e si portano dietro uno stile nuovo. Le sneaker sono il cuore, tanto che i Run DMC – capofila della golden age dell’hip hop made in New York – nel 1986 esplodono con il singolo ‘My Adidas’ che celebra evidentemente la loro marca preferita di scarpe, fino a quel momento accessorio funzionale ma senza particolari connotazioni. Con i Run DMC succede per la prima volta un’inversione fondamentale: la musica e la strada lanciano uno stile che solo in un secondo momento le aziende cavalcano. A un loro concerto al Madison Square Garden tutti, su richiesta della band, si tolsero e mostrarono le proprie scarpe Adidas, solo a quel punto l’azienda, capito il fenomeno, prese i Run DMC come testimonial.
Sneaker regine della scena, perché proprio loro? Si trattava sicuramente di un pezzo facile, anche nel costo, che ritornava in tutti i momenti che scandivano la vita dei ragazzi delle metropoli, quelli dedicati alla musica e quelli dedicati allo sport, soprattutto basket. Del resto, a quello servivano le sneakers e per quello erano fatte: con la punta di gomma per lavorare bene sul terzo tempo sotto canestro, con una suola magari un po’ più strong per fare grip sul legno. Chi indossava quelle scarpe faceva quella vita, servivano a riconoscersi fra amici e a distinguersi dagli altri: non a caso il mondo del rap e dell’hip hop ragiona in termini di crew, di gruppi di amici che sono vere famiglie e si muovono all’unisono, sul palco e nella vita.
Quale era l’habitat naturale dello streetwear anni’80? Ovviamente la strada, sempre e comunque. Per capire che tipo di strada e con quale intensità era vissuta si possono cercare le immagini della grande fotoreporter Martha Cooper, che ha documentato la vita nei ghetti di New York negli anni ’70 e ’80. Si capisce subito che la strada era il luogo d’incontro e aggregazione, da lì partiva tutto, i writer conquistavano i muri con i primi graffiti, chi faceva hip hop rompeva il silenzio e si portava dietro tutti con il ballo. La strada era ed è di tutti, in strada si è creativi con poco, si è tutti uguali e si può diventare una massa critica così carismatica da cambiare le regole. Poi ci sono i film, da ‘I Guerrieri della Notte’, a ‘Wild Style’ e ‘Beat Street’ fino al ben più soft – ma ugualmente decisivo – ‘Ritorno al Futuro’: il look di Marty McFly ha 30 anni e continua ad essere portato in giro nelle strade di tutto il mondo.
Dal ghetto al mercato globale, cosa si è perso e cosa si è guadagnato? Si è guadagnato in potenza del messaggio, si è forse perso qualcosa in termini di autenticità, diciamo che si è un po’ diluito il tutto. Semplicemente oggi si sceglie e si acquista un pezzo, non è così facile sapere e riconoscere quali siano i pezzi giusti e come indossarli, per cui si tradisce lo spirito vero di questo stile e a volte il risultato è pessimo.
Come si fa a costruire uno streetwear giusto? Lo streetwear è composto da pezzi che, nonostante siano diventati di super moda, avevano una loro funzione originaria. Per questo bisogna che anche i pezzi contemporanei, per quanto rivisitati, tengano traccia di quella storia. Se gli Ugg sono scarpe da deserto, nate in Australia e pensate per difendere dal caldo del giorno e dal freddo di notte, non dico che vadano indossati solo nel deserto ma di sicuro non con il bikini come Paris Hilton e seguaci. Felpe, giubbotti, jeans, sneaker servivano a qualcosa per cui il contesto è fondamentale per distinguere un outfit cool da uno decisamente out. Ad esempio, se pensiamo che quello stile rappresentava la rivincita del ghetto di chi era orgoglioso di essere cresciuto lì con la sua crew, qualsiasi capo usato per sembrare ciò che non si è diventa stonato.
Visto che siamo sotto Natale, quali sono i regali perfetti per chi ama lo streetwear? Qualsiasi accessorio di Supreme, store di New York dedicato al mondo dello skate, sempre che si faccia in tempo: le novità messe in vendita on line spesso durano pochi secondi e poi si esauriscono! Le sneaker ‘winterized’, adattate per l’inverno: è un segmento ancora poco esplorato per cui spesso i brands lo usano per sperimentare e si trovano idee ancora belle forti. Una chicca sono le giacche imbottite Parajumpers, marchio italiano distribuito dovunque, ispirato all’omonimo corpo di pronto intervento attivo in Alaska, che mixa tutti gli accorgimenti che servono in quelle condizioni estreme con lo studio della forma.