C’è una foto che gira su internet tra i vari gruppi di noi runners, che non passa inosservata, ritrae una ragazza mora che corre in tuta grigia circondata da ragazzi, presumibilmente runner e un poliziotto che la strattona per un braccio.
L’avrò vista mille volte ma solo dopo aver corso la maratona di New York ho dedicato a quelle immagini la giusta attenzione e dato il giusto valore. Ho voluto capire di più.
La ragazza della fotografia si chiama Kathrine Switzer, stava correndo la maratona di Boston del 1967 e grazie ad uno stratagemma utilizzato il giorno dell’iscrizione, ovvero iscriversi con le iniziali del nome e non con il nome per intero, era riuscita a prendere il via ad una competizione riservata all’epoca, esclusivamente agli uomini.
A nessuna donna era permessa non solo l’iscrizione ma anche la partecipazione ad una qualsiasi maratona: le donne erano ritenute inadatte a percorrere le lunghe distanze.
Non appena il giudice di gara la vide, con i suoi capelli e quel velo di cipria e rossetto sulle labbra, si fece largo tra gli altri concorrenti e la prese per un braccio cercando di trascinarla di forza ai lati della strada per impedirle di correre e di raggiungere la fine della gara.
La determinazione di Kathrine fu più forte della forza bruta del giudice di gara e continuò a correre per la sua strada, dritta verso l’obiettivo, facendo resistenza all’uomo, poi accadde qualcosa di straordinario, il fidanzato di Kathrine, Tom Miller, anche lui iscritto alla maratona, sposta di peso il commissario di gara, lo butta quasi per terra, per permettere a Kathrine di continuare la sua corsa, mentre altri concorrenti che nel frattempo si erano resi conto di quello che stava accadendo, le fanno capannello intorno e la scortano fino al traguardo.
Chiuderà la maratona in 4 ore e 20 minuti e sarà la prima donna nella storia dello sport a correre una maratona.
Con quel gesto Kathrine Switzer ha cambiato il corso della storia, aprendo la strada a tutte le donne che ancora oggi vogliono correre una maratona.
Ho riletto decine di volte quella storia, non senza commozione, e poi una sera il messaggio a Fulvio parte di getto: “E se scrivessi a Kathrine e le chiedessi una intervista?”.
Detto fatto, in pochi minuti la mail è partita, e sarò sincera, mentre la scrivevo avevo ben poca speranza di ricevere risposta, mi ripetevo tra me e me “figurati, chissà quante mail riceverà ogni giorno tra stampa, fans e semplici curiosi…” ed invece, nel giro di tre giorni arriva la sua risposta in SPAM, ho avuto un sussulto… E quando ho realizzato, ho fatto un urlo che persino nell’ufficio di fianco mi hanno sentita.
Eccola li… Poche righe, dirette, entusiaste e addirittura si congratulava con me per aver corso la Maratona di New York, lei mi ha scritto, era lì al traguardo a congratularsi con tutti i finisher, chissà, forse ci siamo anche incrociate!
Ad averlo saputo prima… Forse sarei morta di infarto, incontrare LEI alla fine della mia maratona di New York…Tutte quelle emozioni in un solo giorno sarebbero state davvero troppo per me!
Mi scrive anche che trascorre i mesi invernali in Nuova Zelanda e questa distanza kilometrica ci porta a ben 12 ore di fuso orario di differenza, ma che se ho piacere possiamo sentirci verso le mie 21.00-21.30 le sue 9.00-9.30 del mattino.
Mi emoziono e piango, di nuovo, le scrivo grazie. Grazie per la sua risposta, grazie per aver deciso di concedermi del tempo per la mia intervista, grazie per aver corso la Maratona di Boston quel giorno, perché grazie a lei e a quel gesto, io a Novembre ho potuto correre la mia prima Maratona a New York, grazie per tutte le emozioni che mi sta regalando.
Da quel giorno è un continuo scambio di mail, complice il periodo Natalizio che ci rende tutti un po’ più sensibili e più buoni forse. Non trascorre giorno senza che io e lei non ci sentiamo o ci scriviamo, parliamo di tutto, della corsa, del lavoro, della donna che è diventata dopo quel gesto che è passato alla storia, delle cose che ci accomunano nonostante il gap generazionale che ci divide.
Cerco di tenere a bada l’entusiasmo e l’emozione, che spesso rischiano di andare oltre la professionalità dovuta e rischiano di cadere nel becero stalkeraggio.
Mi racconta un po’ di lei, mi manda informazioni, immagini inedite, e risponde con garbo alle mie mille domande…
Chi è Kathrine Switzer oggi? Una donna matura, 69 anni, che ha mantenuto lo stesso temperamento. La stessa determinazione e lo stesso entusiasmo di allora. Corre ancora, dopo Boston ha corso ben altre 39 maratone e un centinaio di altre gare di tutte le distanze in tutto il mondo. Nel 1974 vince la maratona di New York con un tempo di 3 ore e 07 minuti, il suo margine di 27 minuti dalla seconda classificata, è tutt’oggi rimasto imbattuto. Ha partecipato altre otto volte alla Boston Marathon e nel 1974 vince la competizione con un tempo di 2:51. La sua ultima maratona? Berlino nel 2011 chiusa in 4 ore e 36. Chapeau signori!
Nell’ aprile del 2017 correrà ancora la Maratona di Boston per celebrare il 50° anniversario di “quella sua famosa” gara del 1967.
Cosa o chi ti ha spinto a quel gesto cosi forte e determinato? Per quanto tempo ti era preparata per correre quella maratona? Ho iniziato a correre all’età di 12 anni, mio papà era un grande appassionato di sport, mi incoraggiava a correre a piedi il miglio che mi separava dal campo di Hockey su prato, dove mi andavo ad allenare tutti i giorni. Quando sono andata al college, non solo ho continuato a correre tutti i giorni ma le miglia sono diventate addirittura 3. Erano anni in cui lo sport era prerogativa del sesso maschile, alle donne non era consentito di allenarsi o di praticare alcun tipo di attività, ma io sono stata molto fortunata, la mia famiglia mi ha sempre supportata ed incoraggiata a fare sport, perché accontentarsi di essere spettatori quando si può essere protagonisti, mi ripeteva mio padre. Non solo ho continuato a giocare a Hockey su prato ma ho anche incrementato quello che mi faceva sentire bene, la corsa. Un giorno nel 1966 il Coach della squadra maschile di corsa del Lynchburg College, che mi aveva notata correre, mi chiese se ero disposta ad allenarsi con il suo team. Avevano estremo bisogno di un altro elemento per riuscire a partecipare ad una gara importante e io facevo esattamente al caso loro. Ero giovanissima ed entusiasta e non me lo sono fatta ripetere due volte, accettai. Quando si venne a sapere che una ragazza avrebbe fatto parte della squadra maschile, nel College – roccaforte del pensiero cattolico – si scatenò l’inferno. Una donna osava correre con gli uomini! Era un autentico scandalo. Stava apertamente sfidando le convenzioni sociali, mi spingevo al di là di limiti ben precisi che non erano solo i miei. Ricevetti tante lettere minatorie e di insulti ma non mi feci scoraggiare.
Altra passione di Kathrine, oltre alla corsa, è la scrittura, ama scrivere, le piace prendersi del tempo per pensare e riflettere a quello che scrive. Ricordi, emozioni che possono essere trasmesse e vissute a sua volta da chi le legge. L’unico modo per accumunare lo sport alla scrittura era quello di diventare giornalista sportiva, cosi finito il College, si trasferisce alla famosa Newhouse School of Communications alla Syracuse University per ottenere una laurea specialistica.
Anche qua, le cose non erano diverse rispetto al College, le donne non erano ammesse alle attività sportive, così Kathrine si allena sola, la sera, corre per strada con qualunque tipo di tempo, pioggia, caldo, neve. È stato in quell’anno che incontrerà in maniera del tutto casuale Arnie Briggs, il postino dell’Università, non solo un postino ma anche e soprattutto un maratoneta che aveva al suo attivo bel 15 Maratone di Boston; una persona determinante per il futuro di Kathrine, una persona che da subito ha creduto in lei e nel suo potenziale, una persona che diventerà il suo mentore negli anni a venire.
Arnie Briggs fu la prima persona a cui Kathrine ha confidato di voler correre la Maratona di Boston, ed è stata anche la prima persona a pensare che se c’era una donna in grado di correre la maratona, beh, quella persona era lei.
Quello che accadde quella domenica del 1967 ormai è storia. Sebbene la sua partecipazione passò alla fine come NON UFFICIALE, la notizia della sua impresa, ha fatto il giro del mondo e le ha dato ancora più carica e determinazione per abbattere tutte le barriere che le impedivano di raggiungere il suo sogno.
Come ti sei sentita dopo aver tagliato quel traguardo? Libera, felice, senza paura. Niente come la corsa mi rende forte e mi fa stare bene e quel giorno, più macinavo miglia più avevo voglia di correre. La Maratona di Boston era, ed è, la gara più importante al mondo dopo le Olimpiadi, quando ho iniziato a correrla era solo per me stessa e anche una sorta di rivalsa nei confronti del mio Coach che forse forse, non credeva che avrei terminato la gara, poi quando mi sono vista strattonare, ho sentito una forza in me che mi ha spinto ancora di più nella mia determinazione, ne ho fatto una questione di principio, in quel momento mi è scattato un qualcosa dentro… Come se quello che stavo facendo fosse in rappresentanza di tutte le donne e quando ho sentito il mio Coach gridare “Run to hell!” ho dato tutta me stessa.
Hai mai pensato di mollare? No, ormai ero lì ed avrei continuato fino alla fine, ad ogni costo, se avessi mollato mi avrebbero dato del clown, avrei dato ragione a tutti quei maschilisti che pensavano che le donne non sono in grado di correre maratone o anche brevi distanze che siano. Credevo e credo in quello che faccio e la paura non mi avrebbe mai fermata.
Si è mai scusato negli anni successivi Jock Semple, il commissario di gara per averti maltrattata in quel modo? Non esattamente. L’ho incontrato sulla linea di partenza il giorno della Maratona di Boston nel 1973, dove ero ufficialmente iscritta, mi diede un bacio sulla fronte. Forse quello è stato il suo modo di chiedermi scusa.
Quale è stata la tua vittoria più grande? Sicuramente la vittoria alla New York City Marathon nel 1974, una gioia immensa. La mia vittoria personale, invece è stata quella di aver contribuito all’ammissione delle donne alla disciplina della maratona nei Giochi Olimpici del 1984.
Ti sarebbe piaciuto partecipare alle Olimpiadi? Assolutamente NO, non sono una runner cosi veloce. Sono più felice di sapere che è stata data l’opportunità alle donne, molto più veloci e preparate di me di poter partecipare.
Perché il running è cosi importante per te? Ci sono molti motivi, innanzitutto perché è uno sport facile da fare, semplice, bastano un paio di scarpe e niente altro, perché aiuta a mantenerti in forma, riduce lo stress, mi permette di concentrarmi sui miei pensieri, mi aiuta ad essere creativa.
C’è una persona che ammiri più di altri? Chi è il tuo idolo se ne hai uno? Billie Jean King. Ma per la verità, ho centinaia di persone che ammiro, chiamo eroine, donne sconosciute, donne povere, donne nate dalla parte sbagliata del mondo che decidono di darsi una possibilità e anche attraverso lo sport decidono di dare una svolta alla propria vita e di cambiare il corso del proprio destino. Sia che ce la facciano sia che ci abbiano anche solo provato, loro per me sono le vere eroine.
Come è Kathrine oggi? Che ne è stata di quella giovane guerriera? Come trascorre le sue giornate? Oggi come allora lotto per aiutare le donne a darsi una possibilità, le aiuto a lottare attraverso la mia fondazione non profit, 261 come il pettorale di quella prima maratona perché se io ce l’ho fatta, anche altre possono trovare in loro stesse la giusta determinazione. Lo sai che negli US le donne sono il 53% delle persone che fanno running? Hanno superato gli uomini, e mi dicono che anche in Europa sta succedendo la stessa cosa…
Si il running sta diventando molto popolare anche qui in Europa, meglio in Italia dove vivo. La tua fondazione ha sedi in Europa? Abbiamo una sede solo in Germania per ora.
Che ne dici, in futuro non ti piacerebbe aprire una sede in Italia? Sarei felice di farlo, mi piacerebbe diventare popolare in Italia, e tu Greta saresti una Ambassador perfetta, che ne dici?
Che ne sarei davvero onorata!
Kathrine è anche giornalista sportiva, commentatrice televisiva, esperta di fitness e scrittrice, nella sua carriera ha creato programmi in oltre 27 Paesi che hanno portato all’inserimento delle donne nella maratona e nelle Olimpiadi, ha cambiato per sempre il mondo dello sport.
Il suo riscatto personale è il riscatto di milioni di donne. Se oggi le donne possono giocare a calcio, a basket e persino a rugby lo devono anche a lei, non ha mai mollato, ha sempre creduto in se stessa, come nella maratona, un passo dietro l’altro per raggiungere il proprio obiettivo, perché l’importante è credere in noi stessi sempre.