C’è una terra di mezzo, fra le medie e i primi anni delle superiori, dove ognuno di noi è, è stato o sarà più sfuggente di un’anguilla di Comacchio, più indecifrabile della stele di Rosetta e probabilmente affabile e conciliante come un dentista col trapano in mano.
Negli anni ’90 questa splendida fase fu immortalata da ‘Tapparella’ di Elio e le Storie Tese, indimenticato Manifesto della prima pubertà, nel frattempo è passata più di una generazione, la rivoluzione digitale e un paio di altre cosucce che hanno cambiato definitivamente il mondo.
Fra queste il buon Harry Potter, che ha compiuto un piccolo miracolo: riportare i bambini e i ragazzi ai libri di carta, ridando vita a un genere – la letteratura per ragazzi appunto – che non se la passava più benissimo. Ma come si scrive per i ragazzi? Come si fa, domanda che ritorna spesso, a trasformare una passione in un mestiere? L’ho chiesto a Benedetta Bonfiglioli, scrittrice collaudata e amata di libri per ragazzi che, a dir la verità, ho divorato anche io dimostrandomi ancora una volta che conservare sacche di eterna adolescenza in qualche (ampio) spazio del proprio cervello sia assolutamente vantaggioso.
Qualcuno parlava del ‘mestiere di scrivere’. Scrivere è un mestiere? Si impara a scrivere? Scrivere è un mestiere e in una certa misura si può imparare e insegnare. Credo sia un grosso limite tutto italiano pensare allo scrittore come a un essere folgorato dall’ispirazione o preda del delirio creativo. Credo che una persona abbia il talento della scrittura quando è attraverso la parola scritta che decodifica la realtà, la capisce, la ordina, la riorganizza, la mangia. Quando alle elementari mi chiedevano di fare un disegno che raccontasse una particolare esperienza (la gita al museo, la festa della mamma, il compleanno di Sofia) cadevo nel più profondo sconforto, incapace com’ero e come sono di disegnare immagini che descrivano o raccontino. Se si tratta di raccontare le stesse cose usando la matita per scrivere anziché per disegnare, è tutta un’altra storia: è sempre stato normale, facile, il modo migliore, e una volta finito ho sempre avuto l’impressione di aver colto solo in punta di matita la profondità di quello che avevo vissuto. Quindi: il talento serve, sì, senza nemmeno ci verrebbe in mente, forse, di fare gli scrittori; ma la parte più bella viene con la fatica del mestiere, che si impara come qualsiasi altro e non si improvvisa.
Il tuo pubblico è quello dei ragazzi o young adults, adolescenti in evoluzione. Perché hai scelto questo pubblico? Cosa cambia scrivendo per loro? Scrivo per gli adolescenti perché sono la fetta di umanità che preferisco; perché ci somigliamo molto nell’ampiezza del sentire, perché hanno ali così grandi da poter volare molto in alto, spesso ne sono inconsapevoli, spesso ne hanno l’intuizione ma hanno paura. scrivendo per loro sento come loro, in modo estremo, senza grigi, torno all’origine del senso delle parole, sento come un poeta anche se scrivo narrativa.
Come sono nati i titoli dei tuoi libri: ‘Pink Lady’, My Bass Guitar’, ‘Tutte le Cose Lasciate a Metà’? Alcuni dalla creatività di un editor, altri da citazioni interne al testo. Tutti da un’intuizione fulminea, quasi mai mia.
Scrivere è un atto intimo e privato, pubblicare un libro implica un confronto continuo con gli altri, uno scrittore deve fare entrambe le cose, come le concilia? Con fatica, oppure scrivendo sotto pseudonimo. In realtà ci sono scrittori che amano la ribalta e non temono il confronto con il pubblico. Io ne sono terrorizzata. Non è tanto la paura di non piacere che pietrifica, quanto piuttosto il timore che quello che ho scritto non sia capito: mi sono accorta nel tempo che servono anime affini per vibrare alle stesse sensazioni; la mia paura è di non incontrare sempre, nel pubblico, anime affini alla mia.
Quanto c’è di autobiografico in qualsiasi narrazione? Quasi tutto e quasi niente, a meno che non si tratti di autobiografia. Per quello che mi riguarda, le mie storie non hanno nulla di autobiografico ma, poiché le ho scritte io, ci sono le mie impronte digitali dappertutto: impossibile non riconoscere tracce del mio vissuto.
Che vita fa una scrittrice? Quanto serve la vita che si fa per scrivere bene? Il più delle volte una vita normale con qualche parentesi di follia, momenti down da sguardo fisso nell’acqua del fiume con le tasche piene di sassi, euforie inspiegabili in una persona astemia che non fa uso di sostanze. Credo che per scrivere bene la differenza la faccia il tempo che si vive, la profondità con cui ci si lascia calare nelle situazioni, negli incontri, nei giochi di luce. La narrativa contemporanea ci insegna come lo straordinario si trovi sempre nell’ordinario.