La Maratona di New York è stata una conquista che ho ottenuto con sacrifici, rinunce e privazioni spesso, ma ne è valsa la pena perché se fatto in compagnia di persone fantastiche, con le quali ho avuto la fortuna di condividere questa esperienza, tutto diventa qualcosa di meravigliosamente indelebile a tratti quasi divertente.
Ho detto quasi, si perchè preparare una maratona non è uno scherzo e non è una sfida che va presa sottogamba, mai, se preparata con leggerezza il rischio è quello di farsi male seriamente e di non voler più indossare un paio di scarpe da running per il resto della vita.
Correre da soli è fantastico, ma correre in compagnia, con la giusta compagnia, è anche meglio.
La mia prima Maratona a New York, ho scelto di correrla con Almostthere, un gruppo di professionisti (definiamola azienda specializzata nel proporre un modo nuovo e diverso di fare sport) e con le amiche di sempre, Annalisa, Raffaella e Rossana.
Una lunga avventura durata circa un anno che ci ha portato a dilettarci tra ripetute all’alba, allunghi, esercizi di potenziamento, lunghi e lunghissimi della domenica in cui Danilo Goffi ci seguiva in bicicletta per incitarci e per darci da bere lungo il percorso, tanto eravamo stremati dalla fatica e dalle vesciche.
E poi, in tutta questa avventura c’è stato quello shooting fotografico con Marco Craig, fotografo fantastico, persona di rara gentilezza, una mosca bianca in un ambiente come il nostro, l’unico ad essere riuscito a farmi stare di fronte ad un obbiettivo della macchina fotografica con uno sfondo bianco, vestita da runner, (maglia e pantaloncini) e a farmi sentire quasi a mio agio. Quasi. Chi mi conosce sa la mia avversione verso un qualunque tipo di obiettivo fotografico o televisivo.
Il risultato di quello scatto ormai è noto e ne ho già parlato, il resto è legato al quel progetto, ovvero sia quel lavoro straordinario che Marco ha portato a casa attraverso gli scatti realizzati “da dentro” la Maratona di New York, correndola dal primo all’ultimo miglio con la sua macchina fotografica al collo per immortalare attimi, emozioni: la maratona vista da un runner.
Un progetto, DO NOT CROSS un photo-telling, una sfida che Marco ha accettato, quella di effettuare dei ritratti al vero polmone che alimenta e rende speciale questa gara: il pubblico. Ogni anno decine di migliaia di persone si riversano nelle strade ad incitare tutti indistintamente i partecipanti alla maratona.
Quello che ne è uscito è un qualcosa di fantastico e straordinario, presentato la scorsa settimana al Deus di Milano in occasione di un aperitivo in cui noi finisher della Maratona di New York 2015 ci siamo ritrovati tutti insieme per la prima volta. Bella atmosfera, vibrazioni positive, visi sorridenti, entusiasmo e birra tanta.
Bello rivedersi dopo tanto tempo e scambiarsi le emozioni di una impresa che alcuni di noi hanno compiuto per la prima volta.
Pochi minuti e la serata comincia, prendiamo posto nel teatro, le luci si abbassano e Marco comincia a parlare e mentre racconta del suo progetto, le slide delle foto scorrono lente sullo schermo, sono scatti di un percorso attraverso i quartieri di Brooklyn, Queens, Bronx, Manhattan, mostrano la folla che accompagna con il suo supporto ogni singolo maratoneta, una forza che ti riesce ad alleviare perfino la fatica necessaria per arrivare a fine gara.
Ripercorro con la mente e con il cuore, attimo per attimo, quei giorni a New York: l’attesa la mattina della partenza della maratona, noi tutti seduti su un prato ricoperto di fieno per tenerci al caldo, gli elicotteri che volteggiavano sopra di noi in un silenzio ovattato, quasi irreale, le chiacchiere con gli altri runners provenienti da tutto il mondo, le sensazioni e gli odori ancora vivi nella memoria, rifioriscono piano piano emozioni assopite che sfociano in qualche lacrimuccia alla fine della presentazione di Marco, quando partono le note di We Can Be Heroes just for one day di David Bowie, che in occasione di questa esperienza meravigliosa le ho fatte un po’ più mie. Si può essere eroi per un giorno, o solo per poche ore, l’importante è che quella sensazione ti faccia sentire vivo. L’ho provato a New York e non vedo l’ora di riprovarla, forse già a Milano… Chissà!