Sarà per l’origine antica della sua passione per l’arredo e la bellezza, sarà che vive a Foligno, che qualcuno disse essere il centro del mondo, ma Melissa Giacchi, interior designer, regala pensieri con radici profonde nel cuore e nel tempo ben oltre i suoi 31 anni.
Abbiamo visto alcuni suoi lavori, alcuni spazi che ha vestito, e ci sono sembrati veri e propri quadri a tre dimensioni, quadri nei quali però ti puoi muovere, dove puoi vivere e trovare i tuoi percorsi. L’interior design alla fine è un po’ questo: ha a che vedere con ciò che tocca lo sguardo, tratta con luci, colori, forme e proporzioni come un quadro, un’immagine, un’idea estetica, un modo di sentire il mondo e di produrre bellezza. A differenza di un quadro, però, bisogna camminarci dentro, sentirsi bene, occorre badare a che tutto sia nel posto giusto per gli occhi ma anche per tutti gli altri sensi, perché una casa è da usare e poche cose mettono più a disagio di un luogo dove senti di essere di troppo, perché basta a se stesso e non ha bisogno di essere abitato.
Le nostre case hanno bellezze complesse, forse per questo ci rispecchiano così bene e, siccome di noi vogliamo far vedere soprattutto le cose più belle, abbiamo chiesto proprio a Melissa come si fa a pensare e creare una casa, un locale, uno spazio dove il buon gusto sia ospite fisso e ci ricordi ogni giorno la parte migliore di noi.
Cosa significa ABITO per te? “La mia attività ruota molto attorno a questo sostantivo/verbo. Mi piace considerarlo nella sua doppia interpretazione che spiega perfettamente l’obiettivo del mio lavoro: abito inteso come architettura da indossare, come capo sartoriale cucito su misura per il cliente e abito come coniugazione del verbo abitare, sinonimo di vivere uno spazio interno qualsiasi esso sia. Bisogna essere bravi sarti e un buoni progettisti per rendere speciale la visita o la sosta in un ambiente”.
Come si può far parlare uno spazio, una casa e cosa può dire? “Con l’armonia e un gioco sapiente di materiali, luci e proporzioni. Il concetto di bellezza lascia aperte molte interpretazioni, io credo che un progetto sia ben riuscito quando tutti i sensi risultano appagati, se ciò riesce si può tranquillamente rimanere in silenzio ad osservare lo spazio e vivere la propria esperienza d’interni”.
Che rapporto c’è oggi fra moda e design e, in particolare, interior design? “Il confine è molto labile, non ci sono divisioni nette tra queste due discipline ma al contrario, molte contaminazioni e influenze reciproche. Pensiamo alle tendenze nel mondo del colore, nelle finiture o nei filati dei tessuti, solo per fare gli esempi più immediati. Però va fatta una precisazione importante, il vero design e allo stesso modo l’interior design non seguono stagioni ma devono durare nel tempo, altrimenti parliamo di ornamento e decorazione”.
“Fatto a mano” è un’espressione per te molto importante. Cosa significa il ‘fatto a mano’ autentico, in un momento in cui – a parole – è fin troppo inflazionato? “Sì, viviamo in un momento storico in cui siamo pieni di cose dichiarate “fatte a mano”, il significato che preferisco dare a questo concetto chiama in causa il lavoro artigianale, che non segue le leggi proprie dell’industria ossessionata dai grandi numeri. Oggi anche nel campo del design c’è un’inversione di tendenza grazie alle molteplici forme di autoproduzione in cui il singolo designer è ideatore, produttore e promotore delle sue opere. Se riflettiamo sul concetto di “fatto a mano” non possiamo non inserire tag come #passione #autenticità #eccellenza #manufatto ecco, il mio atteggiamento nel lavoro è più vicino alle logiche dell’artigianato che non a quelle industriali, cerco di renderlo un intervento unico e non replicabile”.
“Fatto a mano. Cantiere Gastronomico” è una tua delle tue ultime realizzazioni: di cosa si tratta? “Di un bellissimo sogno diventato realtà. La storia narra di una coppia di giovani sposi con la passione per la cucina, per il rispetto delle materie prime e per le ricette segrete delle nonne con un pizzico di sperimentazione. Io ho preso questa storia e l’ho tradotta in un locale per cui le superfici sono trattate come dei fogli di carta quadrettata e i materiali si riducono a tre: legno, ceramica e ferro. Questo locale a San Benedetto del Tronto merita una visita per una pausa caffè, un pranzo veloce o un aperitivo, inoltre a breve si completerà con un calendario di attività che spaziano dai corsi di cucina, al riciclo creativo e tanto altro”.
Quale è la tua formazione, che percorso hai fatto? “La mia formazione credo sia iniziata come un gioco nella falegnameria di mio nonno quando mi divertivo con un torchio per rivestire bottoni e imparavo a memoria i modelli delle sedie (Thonet, Lira, Luigi XVI,…). Crescendo dopo gli studi ho cercato la facoltà che più rispecchiasse i miei interessi e l’ho trovata a Roma nel corso di Architettura d’interni della Sapienza. Le prime esperienze sul campo romano sono state altamente formative, ma dopo qualche anno ho capito che avevo bisogno di altro e ho messo in discussione la vita nella grande città piena di stimoli ma con poche possibilità di farsi conoscere. Ho cambiato così stile di vita e sono rientrata in Umbria, a Foligno: da quel rientro è stato un crescendo”.
Carlo Scarpa, Anish Kapoor, Cristobal Balenciaga, Josef Albers: ambiti diversi, personalità diverse, un orizzonte molto eclettico. Quanto bisogna essere curiosi per fare il tuo mestiere? “Ho appena terminato una docenza in cui ho ripetuto fino alla nausea l’importanza della curiosità, dell’osservazione e della ricerca di esperienze extra lavorative. Non pongo limiti alle mie fonti di ispirazioni ne’ tanto meno limito la loro provenienza, tanto che l’architettura di un fiore, il gioco di ombre di una foto o la sensazione nell’ascolto di una traccia di musica elettronica possono essere fonti di ispirazione. Se non si è curiosi e registi della propria vita si perdono grandi occasioni di crescita, per cui rispondendo alla domanda direi molto, sarebbe fantastico avere la curiosità dei bambini, senza però scadere nel “gioco del perché?”.
Sul tuo sito dici “oggi ballo da sola”. Pregi e difetti del lavoro in solitaria. “Lavorare come libera professionista vuol dire essere autosufficienti e avere una gestione totale del progetto in tutte le sue fasi. E’ necessaria una buona predisposizione e grande forza di volontà perché nel bene e nel male il responsabile è solo una persona. Io trovo tutto questo molto stimolante e il ritorno in termini di soddisfazione personale è grande. Il rovescio della medaglia è il mancato confronto con l’altro che però si può ovviare facilmente, sono circondata da validissimi colleghi con i quali posso confrontarmi nel momento del bisogno”.