Della mia prima Monza Resegone (se ce ne saranno altre ancora non ho deciso) ricorderò il forte spirito di squadra che mi ha legato alle mie compagne per quasi 12 ore e oltre, l’organizzazione pazzesca, il tifo lungo il percorso, il silenzio, il buio del percorso, il rumore cadenzato delle scarpe da corsa nel silenzio di un rettilineo disperso nel bel mezzo della Brianza, il guardare in faccia i miei limiti, la sofferenza e la volontà ferrea di andare oltre dimostrando di essere più dura della roccia che ho dovuto scalare per quasi 4 kilometri nel bosco di notte con una torcia in fronte ad illuminare il percorso.
Non è un eufemismo. È quello che ho dovuto affrontare dopo 33 kilometri di corsa in piano, 5 kilometri di tornanti in salita e “l’ascesa alla capanna degli alpini” per arrivare al traguardo e guadagnarmi l’agognata medaglia di finisher.
I miei limiti, le mie paure, i miei dubbi, li ho trovati ad aspettarmi, li ho affrontati e li ho superati. Ce ne sono altri da superare, perché quando finisci una gara simile, ti senti invincibile e pronta a conquistare e superare altre sfide.
Se chiudo gli occhi, però, ricordo ancora il dolore alla schiena, il senso di nausea dato forse dallo sforzo fisico e la testa che mi girava quando guardavo verso l’alto ma non vedevo il punto di arrivo.
Più volte ho pensato “basta non ce la faccio più… vorrei fermarmi…” ma dove? Come? Non era una opzione ipotizzabile. Il sentiero era stretto, senza possibilità di spostarmi dal percorso imposto, eravamo tutti come in cordata e se appena tentennavi a procedere, erano tutti pronti a scavalcarti.
Più volte mi sono ritrovata abbarbicata alla roccia come un lichene, a tenermi stretta stretta per paura di cadere, mentre da dietro runners (alpinisti) più esperti mi sorpassavano a destra e a sinistra, più volte mi sono ritrovata a cercare nel buio della notte le mie compagne di squadre molto più esperte di me che mi precedevano senza mai far passare un metro senza gridare “Greta ci sei?” ed io con un filo di voce rispondevo fingendo di darmi un tono “siiii sono qua!”.
Poi mi voltavo verso il basso, vedevo dietro di me decine e decine di altri runners , una coda infinita di lucine intente ad arrampicarsi nel raggiungimento della cima, e poi laggiù in fondo le luci della Brianza, uno spettacolo che toglie il fiato e allora recuperavo un po’ di forze e via che percorrevo altri metri.
Ma quel percorso cosi impervio e arido sembrava non voler finire mai.
Ero talmente stanca e provata dallo sforzo che non ho nemmeno realizzato di essere arrivata in fondo alla gara, ho solo sentito la voce degli alpini gridare “brave ragazze ce l’avete fatta!!”, mi sono girata e ho visto il cartello Arrivo.
Mi sono commossa e di colpo tutta l’emozione e la stanchezza mi sono piombate addosso e ho iniziato a tremare, forse il freddo che c’era là in cima al monte Resegone, forse il nervoso, sicuramente lo sforzo abominevole di quella che io ora definisco “l’impresa”, che per tutti i comuni mortali è una semplice maratona, la Monza Resegone. Forse la commozione di essere arrivata al traguardo.
Il fatto è che né io né le mie compagne di squadra avevamo una idea ben chiara di quello che ci avrebbe aspettato lungo il percorso che dai riflettori sulla pedana di partenza con tanto di tappeto “blu” dall’Arengario di Monza ci ha portato ben presto fuori dal centro, lungo le strade buie della Brianza alla conquista della vetta del Resegone. Me ne sono resa ben presto conto, non solo sui saliscendi e nella scalata, ma una volta iniziata la discesa, incrociando squadre di runners che ancora non erano giunti al traguardo, chi con crampi, chi spossato e pallido in viso spinto letteralmente dai compagni, chi caduto per errore nel dirupo a fianco del sentiero ricoperto da una maschera di sangue. All’alba nel bosco si sentiva l’elicottero che probabilmente andava a recuperare chi dalla cima del Resegone non riusciva a scendere con le proprie forze.
Rivedendo a ritroso il percorso, con la luce del giorno, ancora non ci credo di averla finita. Una maratona come questa va oltre ogni mio immaginario se mi avessero detto che un giorno l’avrei corsa, a stento ci avrei mai creduto. Io allergica alla ginnastica, io che ho sempre visto le scarpe da ginnastica come una mancanza di stile e sciatteria, io ballerina classica candidata al provino per entrare nel corpo di ballo della Scala di Milano, io con la mia postura da papera, io che la prima gara l’ho corsa a 7 anni con stivaletti di cuoio e le fiacche ai piedi, ma senza versare una lacrima per non dare soddisfazione a mamma e papà che mi avevano regalato tuta e scarpe da ginnastica all’ultima moda.
Testa dura io e caratteraccio, sempre voluto fare a modo mio le cose, fin da piccola.
Una notte carica di emozioni, una notte lunga vissuta intensamente quasi tutta d’un fiato, ancora mi riecheggiano nella testa i saluti gridati e l’entusiasmo della gente lungo tutto il percorso, i bambini che battevano il cinque, uomini che ci applaudivano e ci spronavano a non mollare anche nei momenti più difficili. Il saluto degli Alpini, chi ti offriva da bere o da mangiare, i volontari gentili dei punti di ristoro, l’inno Nazionale al Via, il nostro ingresso da soubrette mano per mano sulla pedana al momento della partenza, la fila di gente all’inizio della salita a Calolziocorte che ti si chiudeva intorno come per spingerti in un forte abbraccio verso quei tornati lunghi, inesorabili che ti tagliano le gambe, dove più volte mi sono fermata a respirare per riprendere le forze e continuare la mia corsa a piccoli passi verso Erve dove il cancello inesorabile si sarebbe chiuso alle 4 ore e 15 minuti di gara rendendo vana tutta la preparazione e la gara, facendoci squalificare.
E a te cara sconosciuta dolce signora con le stampelle incrociata lungo il percorso verso Cololziocorte, tu che con i tuo entusiasmo ci hai aspettato in strada fino a notte fonda, quando ci hai visto mi hai dato la mano e con sguardo fiero e sincero ci hai gridato “braveee donne, brave, siete grandi!”, voglio dire che la tua stretta di mano sincera l’ ho portata con me fino a lassù in cima al Resegone e questa mia conquista anche se piccola e insignificante la dedico un po’ anche a te e alla forza che mi hai trasmesso.
Vorrei ringraziare le mie compagne di squadra Raffaella e Rachel per aver condiviso questa esperienza fantastica, a Rachel che ci dava i tempi per non farci perdere il ritmo e mi ha spronato nei momenti di crisi spingendomi a non mollare mai. E poi la squadra numero 10, Valentina, Marcilene e Monica partite subito prima di noi con le quale abbiamo condiviso parte della corsa, tra chiacchiere, risate, red bull, coca-cola e maledizioni per le salite e anche gossip nei momenti critici.
Siete state tutte compagne di viaggio impagabili.