Quando mi sono iscritta alla Monza Resegone, non avevo ben chiaro di che tipo di gara, o meglio, maratona, sia in realtà. Una leggerezza, una goliardata presa un po’ sottogamba, che sto scoprendo piano piano parlando con chi l’ha già corsa.
Una gara tosta non c’è che dire. Mi piace l’idea di correrla in squadra, di notte, di arrivare alla capanna degli Alpini e vedere l’alba dall’alto, facendo colazione con cappuccio e brioche o cosa più probabile, con panino alla salamella.
Le mie compagne di squadra, due triatlete, Raffaella e Rachel che, come ho scoperto da poco si arrampicano in salita come Edward Cullen scalava montagne in Twilight. E io? Odio le salite. Se posso le evito, la Monza Resegone è per quasi metà strada … in salita appunto!
Che caschi il 18 di Giugno tra Pitti Uomo, la fashion week milanese e Pitti Bimbo, non è un punto a mio favore.
L’aggravante o il plus di questa gara blasonata e ambita non tanto per il percorso, quanto per l’atmosfera e l’organizzazione che la circonda, è il fatto che va tassativamente iniziata e conclusa da tutti i componenti della squadra, se uno dei tre per un qualunque motivo si ferma o si ritira, la squadra è squalificata. Amicizia e rapporti messi a dura prova ! Parola di chi l’ha corsa.
Partire insieme, arrivare insieme al traguardo, e soprattutto cercare di avere la stessa andatura ed evitare l’effetto elastico soprattutto in salita per tutti e 42 i kilometri. Una sfida nella sfida.
Per questo motivo, martedì scorso, dopo l’ufficio io Raffaella e Rachel abbiamo deciso di organizzarci per una prova generale e per un sopralluogo della “scena del crimine”. Correre insieme da Calolziocorte a Erve. Decidiamo di parcheggiare l’auto nella piazza e di scendere per scaldare i muscoli per poi risalire lungo il percorso di gara. Il tempo è clemente, dopo una intera giornata di pioggia a volte violenta a scrosci, quando iniziamo la corsa, fa addirittura capolino un timido sole. Buon segno. Il Monte Resegone (Resegun nel dialetto lecchese) è lì di fronte a noi e nel guardare rivengono alla mente le parole del Manzoni che lo ha immortalato nei Promessi Sposi, descrivendolo come lo si vede dal Lago, “la costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui, l’uno detto di San Martino, l’altro, con voce lombarda, il Resegone dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega”.
Iniziamo la discesa correndo piano, l’asfalto è bagnato e a tratti scivoloso, cerco di appoggiare i piedi con attenzione e di non spingere sulle punte come il mio solito. Il Garmin comincia a suonare all’impazzata, i battiti del cuore salgono oltre la soglia di sicurezza, non è lo sforzo, solo l’emozione di essere lì finalmente a correre con le mie compagne di squadra. Mi copro la manica, non solo per zittire il Garmin ma per cercare di concentrarmi sul percorso e assaporare il momento, stasera il tempo e la velocità non contano.
Nei tornanti ci muoviamo in maniera compatta, in linea indiana Raffaella e Rachel si alternano alla testa del gruppo, io preferisco stare poco più indietro, ad un ritmo leggermente più lento. E’ una mia prerogativa, difetto se volete, non dare subito tutto nella corsa ma risparmiarmi per il “dopo”, mano a mano che macino metri, inizio a percepire che la salita non sarà per niente facile, e che forse avevo sottovalutato la pendenza del tracciato, cerco di memorizzare la strada e cerco dei punti di riferimento che potrebbero tornarmi utili nella risalita.
Incrociamo altri runner che come noi si cimentano nell’impresa, sguardi complici e saluti sinceri di chi si (ri-)conosce nella follia della preparazione di una gara per niente facile, unica nel suo genere.
Arriviamo in piazza, poi giù al semaforo, la rampa in falso piano è la giusta strada per darci la spinta necessaria ad affrontare la salita, abituare le gambe e soprattutto la testa, che questa sera sembra proprio non voler collaborare.
Partiamo e cerco subito di stare dietro alle mie compagne. Faccio fatica, il caldo umido e il fondo scivoloso non aiutano, forse avrei dovuto mettere scarpe da trial, queste da running, suola liscia, non fanno abbastanza attrito, da tenere a mente il giorno della gara, inizio a fare la lista dei To Do e dei NON to DO, qualunque cosa pur di non pensare a quello che sto facendo. La strada che ci porta al primo tornante non è in salita, di più, arrivo in cima col fiatone e mi giro a destra, inizia il tornante in salita che ci porta alla seconda rampa di scale, ho già detto che detesto le salite si? E la testa comincia a vacillare “chi me lo ha fatto fare? Sono stanca, non ce la farò mai, mi manca il fiato… devo proprio correre? Io cammino che me frega!”.
Però non mollo, rallento il passo, mi stacco dalle mie compagne che sono già a qualche metro da me e saltellano come stambecchi nel loro habitat naturale.
Piano piano avanzo, non metri, non centimetri, direi pochi millimetri alla volta, e la testa ancora che mi trascina nel baratro della resa. Difficile, difficile, che fatica, non ce la farò mai, al prossimo tornante mi fermo… Oh le scale, meno male, così almeno rifiato un poco. Scale larghe e scivolose, faccio fatica a tenere il passo, scivolo, ho caldo, dolori ovunque alla schiena, ai polpacci, alla cervicale, grondo di sudore, ma non mi voglio togliere la giacca per non rischiare di prendermi una botta di freddo.
Dopo le scale, altro tornante, la salita è meno ripida ma comunque impegnativa, di quelle costanti e inesorabili, ma quando finisce? I polpacci cominciano a farsi sentire con qualche dolorino, non ho ancora recuperato i 20 kilometri di domenica, però del resto, il giorno della gara prima di iniziare questo strazio, ne avrò corsi 33 circa, quindi… non ho scuse. Devo arrivare a Erve e farlo nella maniera più dignitosa possibile, e in questo momento, di dignitoso ho ben poco, realizzo con dispiacere che non ce la faccio più e inizio a camminare. Sollievo per la gambe e il fiato, un colpo di spada al mio orgoglio, non è da me mollare così, ma quando non ce n’è non ce n’è, anche raschiando il fondo del barile, e poi…questa è solo una prova, succedesse mai in gara, appendo le scarpe al chiodo.
Di sicuro, in questi giorni che mancano alla gara bisogna correre ai ripari, corse in salita, ripetute, pedalate e training autogeno. Abituare la mia testa alla salita, se non c’è la testa non si va proprio da nessuna parte.
Forse questa gara arriva troppo presto dopo la Maratona di Milano, magari avrei dovuto riposarmi e disintossicarmi un pochino da tabelle, ripetute, lunghi, allunghi e l’obbligo alla corsa che ti porta all’impegno di dover preparare una gara. E intanto un altro tornante è andato, le mie compagne hanno rallentato, mi stanno aspettando, Rachel mi grida “ se mi raggiungi ti porto su io!” Porca galera, penso io, non solo corre in salita come uno stambecco, riesce pure a parlare? Ok la zavorra del gruppo sono io e questa cosa non mi piace per niente! Recupero un minimo di orgoglio e con tutte le forze che mi rimangono inizio ad aumentare leggermente la velocità, le raggiungo, mi metto a ruota, cerco di svuotare la testa da tutti i brutti pensieri, anzi cerco proprio di non pensare a nulla e mi concentro sul movimento dei piedi e delle gambe della mia compagna di fronte, a volte Raffaella, a volte Rachel e in questo stato di simil tranche quasi intontita, arriviamo finalmente alla macchina. Avrei voluto baciare la strada del parcheggio come faceva Papa Wojtyla in terra straniera. Ma dopo un primo attimo di illusione di aver finito questo martirio, decidiamo di comune accordo di procedere per altri 2 kilometri per vedere la parte di sterrato che porta al bivio di Prà di Rat da dove poi inizia l’ultima parte di gara, una cordata di gente in fila indiana che si arrampica per un sentiero in mezzo al bosco di notte per arrivare al traguardo finale. Quei 2 kilometri non saranno mai peggio della strada fatta fino ad oggi, cosi inizio a far girare le gambe e inizio a correre come se fosse pianura, ma che pianura non è. Gambe e fiato reagiscono bene, un po’ meno le scarpe da running che in questo momento sono quanto di più sbagliato potessi indossare, urge investire in un bel paio di scarpe da trial. Ci arrampichiamo tra sassi, fango, cespugli ed arriviamo giusto in tempo alla base del Resegun prima che inizino a scendere le ombre della notte.
Fortuna Rachel ha portato una pila con la quale riusciamo ad illuminare il percorso e quando usciamo dal bosco, è una lunga e folle corsa sull’asfalto che ci porta dritte dritte alla macchina. Sono io in testa al gruppo e tiro come raramente mi è capitato, dopo così tanta salita e fatica, correre in piano, in discesa sull’ asfalto, non mi sembra vero. Lascio andare le gambe e quasi impossessata da una strana e allegra euforia mi lancio in una corsa folle verso la macchina.
Forse le endorfine alla fine hanno fatto effetto. Sono soddisfatta, ma anche delusa, ho dei limiti, tanti, paure da affrontare e combattere, del lavoro, parecchio, da fare.
Questa sera è stato il mio battesimo, un assaggio di trial, ne ho ben chiari i percorsi, i sentieri, i profumi e la fatica del percorso, una fatica che senti in gola ma che ti regala quella consapevolezza di riuscire ad andare oltre le tue paure e i tuoi limiti, che però soddisfa il mio bisogno di libertà.
Questa maratona bisogna portarla a casa, la Monza Resegone ti offre la possibilità di vivere una esperienza unica, una avventura alla portata di tutti, non solo di chi vuole vincere o conquistare una medaglia, una volta scesi da quella montagna ti senti più saggio e soddisfatto, ritrovi il tuo spirito combattivo e la consapevole della tua forza.
“La cosa bella di far parte di una squadra è l’impegno. Devi dare tutta te stessa per contribuire alla vittoria.” Grey’s Anatomy