Con qualche difficoltà di connessione e di GPS eccomi direttamente da Madesimo, il paradiso dei bikers d’alta quota… sì, ma quelli che si catapultano giù in valle a velocità sfrenate facendo gimkane tra larici e abeti, rocce e mucche, insomma… sto parlando di quei coraggiosi che praticano downhill, che è (forse) altra cosa rispetto al ciclismo.
Da quando ha aperto in paese Made4Fun Madesimo, associazione sportiva dedicata a questa interpretazione estrema delle due ruote, un merito va senz’altro riconosciuto: quello di aver strappato dalle rumorosissime moto da trial, un tempo sparse in ogni dove su queste montagne, frotte di ragazzi in cerca di emozioni forti, anche d’estate, quando lo sci è appeso al chiodo. Oggi tutto è organizzato (bene) in percorsi riconoscibili e recintati, tenuti perfettamente sicuri come sentieri del CAI, e, soprattutto, oggi la corsa in valle plana silenziosa nel massimo rispetto della natura, senza terrorizzare lepri e scoiattoli, ma lasciando del tutto immutato il brivido della velocità e l’apprensione di mamme e fidanzate/i. Obiettivo pienamente raggiunto. Il fenomeno cresce, con grande beneficio di Madesimo, che sta svecchiando il suo target turistico.
Penso che se avessi ancora 15 anni sarei anche io lì a spararmi discese su copertoni da 26 pollici, bardata come un quarterback… anche se il fascino della montagna per me, oggi come ai tempi adolescenziali delle prime esplorazioni sportive, consiste soprattutto nell’idea di fatica. E quindi salire è meglio che scendere.
Ricordo ancora come fosse ieri la prima mountain bike che il mio papà aveva comprato da tenere in montagna. Non era una bici “mia”, ma in breve ero l’unica a usarla. Un “catenaccione” enorme superdotato di pezzi pesanti, come ad esempio parafanghi e luci, oggi totalmente scomparsi dalle affilate silhouette delle nuove generazioni di bici. Ogni volta che tentavo di cambiare corona, matematicamente la catena cadeva. Così, quasi senza accorgermene viste le pendenze della zona, viaggiavo sempre con la rotellina davanti più piccola, muovendo le gambette velocissime ogni volta che mi trovavo in piano.
Al tempo, avevo circa 16/17 anni, il massimo era raggiungere il paesino Groppera, a circa 500 metri di dislivello impennati in soli 2/3 km quasi sempre su sterrato. L’obiettivo era riuscire a non appoggiare mai un piede a terra. Mission impossible? No di certo! Era l’era del Walkman e “dopati” dalla musica giusta si poteva raggiungere qualsiasi record.
Il premio poi consisteva nell’attraversare un fantastico torrentino con l’acqua all’altezza giusta e i ciottoli piatti così da non rischiare tuffi in alta quota, pericolosi perché poi in discesa c’era probabilità di ghiacciarsi. Già… la discesa. Un incubo con i freni del “catenaccione”. Correvo con l’idea fissa che potesse “partire” un cavetto e di lì ritrovarmi in tuffo da un tornante all’altro della strada di Motta.
Due anni fa provai a rifare il giro del paesino Groppera e l’esito fu disastroso: zero fiato, gambe in pezzi… persino gli addominali facevano male. Ma mai quanto lo smacco subito. Il ricordo delle pedalate decise che facevo a 16 anni sembrava appartenere ad un’altra persona. Ok, non ero assolutamente allenata, ma non riuscire a farcela al punto di dover spingere a piedi la bici era più di quanto potessi sopportare. È stato anche questo uno dei motivi che mi hanno spinto a praticare la bici. Ed anche se preferisco di gran lunga la pianura, spesso mi sono allenata pensando di riagguantare, prima o poi, il paesino Groppera con la stessa metodica facilità di un tempo. Così l’anno scorso le cose sono andate decisamente meglio (circa 6 fermate, ma mai bici a spinta) e quest’anno… quest’anno devo ancora provarci. Sarà tra qualche giorno. Ho un po’ di timore reverenziale e… paura di non farcela!
Nel frattempo l’allenamento è a Fondovalle, con “soli” 125 m di dislivello complessivo concentrati però in un paio di km dove se stacchi gli occhi dalla ruota per far correre lo sguardo sulla strada avanti a te, immancabilmente risuona la vocina che dice “non ce la farai mai”. E invece, complice il rapporto giusto, ovvero quello da mille pedalate per un metro, oppure quello più tonico da pedalata in piedi, ecco che, magicamente, di curva in curva, si arriva alla fine della strada, dove è l’imbocco dell’amato sentiero che porta al rifugio Bertacchi. Oggi è gestito in maniera eccellente da un “meratese con la montagna nel cuore”, Luigi Pozzebon, che ha saputo portare uno stile d’accoglienza contemporaneo, sebbene conscio della tradizione, tra le arcigne montagne del passo Niemet.
Con questo intendo lanciare l’idea che raggiungerò il Bertacchi in bici? No di certo! Questa sì che è per me missione impossibile, anche per il senso di vertigine che, nella migliore delle ipotesi, potrei provare sul sentiero che attraversa il Pizzo Spadolazzo, la montagna a forma di molare che domina la valle di Madesimo. Eppure ieri tre ciclisti svizzeri, che sembravano usciti dal vecchio spot del cioccolato Novi, stavano proprio per intraprendere l’avventurosa traversata.
Non fa per me! Io mi accontenterò di raggiungere ancora il Groppera. Un applauso d’incoraggiamento… e via! Verso la mia personale olimpiade!
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