Era da tempo che il Bicycle Film Festival non metteva piede, o meglio pedale, a Milano.
Le ultime due edizioni si erano consumate nelle emergenti location dell’ex Ansaldo e di Lambrate-Ventura rispettivamente 4 e 3 anni fa e così molti riders, messengers e “scatto-fissati” erano rimasti pazientemente in attesa di ritrovarsi nella kermesse che coniuga la ricerca cinematografica alla passione per le due ruote. Quest’anno nella nuova sede del Santeria Social Club, in Viale Toscana a Milano.
E infatti l’offerta del festival presenta lavori davvero interessanti e curiosi. Alcuni con il sapore del reportage, altri di gusto epico, altri ancora dedicati a pazze imprese al limite del goliardico.
Come non ricordare infatti il gruppo di folli canadesi di “Bicycle crossing of Lake Saint-Jean” che ha deciso, al ritmo di una canzoncina stile “It’s a long way to Tipperary”, anche se declinata in francese, di attraversare in bicicletta un ghiacciatissimo lago del Quebec. Pochi chilometri, ma con un vento tale da frenare anche le motoslitte e paralizzare una muta di cani, figurarsi una mountain bike. Dalle 3 ore stimate infatti il gruppo ne ha impiegate allegramente oltre 8 per arrivare a destinazione sull’altra sponda del lago, finalmente fra le braccia delle trepidanti consorti che forse hanno patito quanto e più dei coraggiosi ciclisti (con 5 ore di attesa…). Un brutto film, tecnicamente parlando, ma un gran bello spirito. Anche alcolico, naturalmente.
Ambientato tra i ghiacci avevamo appena ammirato la testimonianza, un po’ algida in termini di empatia, di “Moonriders”. Un corto svizzero che insegue due ciclisti sulle piste del Cervino, in notturna. In questo caso l’equipaggiamento perfetto, le fat bike, le luci, le piste impeccabili, lo scenario mozzafiato del comprensorio illuminato di Zermatt non riuscivano tuttavia ad uscire dal mero compitino estetizzante. La bici è passione e quindi ci si aspettava qualcosa in più.
Sul fronte dell’emotività pura c’è invece il documentario “Mama Agatha”, dedicato ad attempate signore emigrate in Olanda che frequentano la palestra organizzata da altre signore emigrate, ma perfettamente integrate, per imparare niente meno che… ad andare in bicicletta! Eh sì perché chi non pedala in Olanda è doppiamente estraneo. È chiaro che da quelle parti è più importante frequentare assiduamente le piste ciclabili piuttosto che le chiese e le moschee. E così si scopre un mondo di speranza di integrazione trasmesso fatalmente dai pedali alla ruota. Ecco quindi la signora cinese (ma come, non erano tutti nati sulla bici i cinesi?) percorrere emozionata i primi metri da sola, senza sostegni e senza mettere giù un piede. E c’è la sessantenne pakistana che finalmente coronerà il sogno di indipendenza in bici coltivato in segreto fin da ragazza, quando i genitori non permettevano di fare certe cose così sconvenienti.
Una bella testimonianza davvero, in linea con i valori che da sempre la bicicletta riesce a trasportare. Tanti valori e sempre in perfetto equilibrio.
Tra i film visti se poi ce n’è uno che merita l’aggettivo di splendido è il corto “An african race”, dove colpisce la ritmica della narrazione visiva, perfettamente sincronizzata con il sound firmato da Fela Kuti, campione della musica africana. Si susseguono morbidi close up e vastità africane: un muscolo in tensione, la foresta pluviale, una mano sui freni, un bimbetto che guarda rapito il passaggio dei ciclisti… dettagli epici di una competizione che ricorda, per l’entusiasmo con cui è seguita da folle di giovani, l’evento sportivo che era il Giro d’Italia nei primi anni. Forte, commovente, ispirato.
Dopo tutto ciò, dopo aver respirato a pieni polmoni il lato positivo della bici, aspettavo con serena tranquillità il lieto fine che pensavo potesse arrivare dai video di Lucas Brunelle.
Un vero mito mediatico sulle due ruote con 59.376 followers su Facebook, 62.659 su Instagram e 3.811 su Twitter.
Ebbene sarò all’antica, poco cool o poco trendy, ma io non penso che riuscirò mai a comprendere cosa ci sia di eroico nel gesto di certi tipi che corrono follemente in strade infestate dal traffico, contromano, con il rosso e sui marciapiedi. Fregandosene allegramente di chi è a piedi o di chi, in macchina, magari rischia di andare fuori strada per evitare di spiaccicarli sull’asfalto.
A giudicare dai numerosi gridolini entusiasti in sala, i tipici “wooo” che fanno tanto Steve Jobs, ho temuto, durante la visione del video, di essere l’unica a pensarla così. Eppure come si fa a non sperare che un camionista incazzato prima o poi non prenda per il collo uno di questi sedicenti riders per attaccarlo al muro? Nel film si vede un ragazzo che viene bloccato da un autista e così in cuor mio stavo già godendo, nella speranza di vedere le nocche dell’onesto lavoratore stampate sul muso dell’imbecille che gli aveva appena tagliato la strada in bicicletta.
Sì perché questa, secondo la mia opinione, non è passione per la bicicletta. È totale, insensata, pericolosa sfida alla morte.
Le vere imprese, se vogliamo rimanere in tema di assonanza, sono semmai una sfida al Mortirolo. Ma passare con una scatto fisso tra due camion che si sfiorano nei due sensi opposti di marcia, attraversare un incrocio a NY con il rosso o tagliare la strada a un tassista pensando di essere dei fighi è, credo, oggi che va di moda tentare di vivere al meglio in questo mondo difficile, appena un po’ fuori luogo.
Persone molto simili a questi campioni, in altre latitudini meno urbanizzate, si lanciano dalle vette con la tuta alare. E quanto meno si ammazzano senza coinvolgere altri esseri umani nel pericolo che hanno scelto di correre. In altre epoche invece i giovani dotati di surplus di testosterone si spedivano a Troia, a cercare una morte, sempre per futili motivi, degna di Omero o più recentemente nelle colonie, a opprimere le popolazioni autoctone. Un sistema che l’impero britannico cavalcò con cinico successo per secoli, limitando i danni in casa e monetizzando gli impulsi autodistruttivi delle nuove generazioni.
Oggi però i ragazzi sono più informati e maturi e quindi invece che arruolarsi nella legione straniera, che appare vita spericolata, s’illudono di essere immortali sfrecciando contromano sotto alle finestre della mamma.
Lucas Brunelle tuttavia non è più giovane. E colpevolmente non sembra criticare questo stile di vita. Appare quindi come un inquietante, nuovo pifferaio di Hamelin, tutto intento a flirtare con ventenni un po’ ingenui che ne imiteranno il “wooo” dopo la curva spericolata, il dito medio alzato come nella sua foto del diario e, sicuramente, le “imprese” avverse al codice della strada nelle proprie città.
Possiamo considerare un buon esempio il nostro bravo Lucas?
E i numerosi sponsor si saranno resi conto di dove stanno mettendo la faccia? Certo, i teschi sulle T-shirt hanno sempre contribuito al sell out, ma un conto è il bonario jolly roger che non si nega neppure a un bambino e un conto è l’infatuazione per la morte, il corteggiamento gratuito attraverso comportamenti pericolosi per sé e per gli altri.
Ciliegina sulla torta, l’avventura conclusiva che potrebbe avere il titolo di “Gita a Chernobyl”, da quanto riesce ad essere fatuo e gratuito l’approccio ad una delle più terribili tragedie del nostro tempo.
Perché certamente non bastava sfidare la morte in mezzo al traffico. Per essere sicuri del risultato cosa c’è di meglio che entrare nella zona proibita e respirare a pieni polmoni le polveri radioattive? La morte, a Chernobyl, è ad ogni respiro, ad ogni passo, ad ogni sorso d’acqua.
Ah ah, che ridere, la suola delle scarpe fa impazzire il contatore Geiger! E cosa c’è di più figo che attaccare un adesivo del merchandising sull’artiglio che ha scavato nel reattore esploso e che forse centinaia di persone hanno manovrato a costo della vita?
Non c’è che augurare al caro Lucas una lunga carriera di divertimenti come questo. Gli faranno bene.
Sarò all’antica, ma per me il ciclismo è altra cosa… forse semplicemente il rispetto per la vita anziché la morte?
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