Tutti aspirano a essere unici, che significa – ma questo aggettivo ha molta meno fortuna – diversi. Bizzarro che, mentre si cerca spasmodicamente l’unicità, si tema invece la diversità. Irene Chias scrive di diversità di pensiero, di lingua, di colore. Diversità di tanti tipi che un po’ si annullano un po’ si amplificano, sempre si dichiarano e si rendono evidenti, inevitabili.
Essere diversi rende più difficile e, qualcuno dirà, interessante il percorso per capirsi. Qualcuno troverà invece quel percorso un po’ faticoso e preferirà muoversi su un terreno più familiare, dove il retroterra comune garantisca più complicità, salvo magari esplodere in un ‘chi l’avrebbe mai detto’ di fronte a un gesto o a una parola perché anche i più simili a noi, vivaddio, sono sempre imprevedibili.
Del resto, ciascuno può produrre aneddotica infinita sugli ‘inequivocabili segni di interesse’, quelli che ciascuno dichiara di aver dato per far capire il proprio interesse al partner e nessuno capisce mai, magari scambiando invece dettagli del tutto insignificanti per dichiarazioni di resa incondizionata. Su questa tragicommedia degli equivoci gli smartphone hanno avuto un effetto devastante e lo sappiamo bene. Alla fine, il corpo o il destino o chissà ci salvano, l’attrazione trionfa e si supera l’infinita sequenza di fraintendimenti, che diventa subito repertorio per le prime cene fra amici della neo-coppia.
Mentre evitiamo di cercare l’uomo capra, il tema diventa scoprire cosa succede se, all’incapacità di base di qualsiasi individuo di decifrare il prossimo, si sommano lingue, educazioni, culture completamente diverse. E se la relazione trasforma in relativo tutto ciò che per noi era assoluto (da come si rifà il letto a cosa sia una donna), l’idea che ci siamo costruiti di noi e di chi siamo che fine fa? Ma questo non succede sempre e comunque, anche con il compagno di banco delle elementari? Irene Chias accende le differenze per mostrare come variano le distanze fra i pensieri, gioca con le categorie e le etichette che ci tradiscono nel nostro goffo tentativo di usarle per semplificarci la vita o per sviare e indirizzare gli altri, come nel titolo. Pensa e ripensa l’amore come un’occasione di scoperta e di ricerca, di noi, degli altri, degli altri in noi. E chissà che alla fine l’uomo capra non sia poi davvero così tremendo.
Il suggerimento di ‘non cercare l’uomo capra’ implica che esistano uomini non-capra più giusti, serve un identikit per cercare l’uomo giusto, il ritratto che esca da un incrocio di variabili? “In realtà il messaggio del libro è l’esatto contrario. Un violinista appassionato di astrologia cinese suggerisce a Luisa di cercare un uomo del segno della Capra, che poi è un modo per farsi avanti dato che è il suo segno. Ma Luisa è innamorata di uno del Serpente. Non c’è astrologia che tenga, nell’innamorarsi”.
‘Non cercare’. L’amore e i suoi derivati sono intenzionali o ci si cade dentro, all’inglese o alla francese, senza volere? “Secondo me innamorarsi è davvero cadere in amore, ed è bello che sia così. Un’emozione vitale e potentissima, ma a tempo determinato. Credo però che amare sia qualcosa di contiguo ma diverso, in cui entrano in gioco la scelta, l’impegno, la razionalità”.
In quale fase le differenze culturali sono più delicate? Corteggiamento, seduzione o relazione? “Credo che le difficoltà più serie riguardino la relazione vera e propria, quella in cui si mettono maggiormente in gioco le proprie idee su se stessi e sul posto che si crede di avere il diritto di occupare nel mondo e nella coppia”.
Potremmo pensare che il corpo e le sue reazioni biologiche siano l’unico ponte che, superando lingue e categorie, permetta una comunicazione diretta. Ha senso per te? “È un’ipotesi che il personaggio di Simona, che ha una relazione difficile con un uomo del Gambia, avanza. Dice che il suo rapporto con Seedia è quanto di più onesto riuscirà mai ad avere. E questo proprio perché sono lontanissimi, se non quando si abbracciano, o hanno un rapporto sessuale, o dormono vicini. Per Simona questo rappresenta l’intimità più sincera che possa esistere, perché non soggetta alle insidie della parola. “L’unica intimità vera” dice. Simona sa che una parte di lei non raggiungerà mai Seedia, se non in quei momenti; sa che non conoscerà mai davvero la sua storia e la sua mentalità e il suo modo di vedere il mondo. “E questa consapevolezza ci salva dalla tentazione di cedere a ogni illusione di fusione, la menzogna che ha inquinato tutte le mie storie passate”.
‘Sono ateo e ti amo’ è un altro dei tuoi titoli. Si può essere atei anche rispetto all’amore? Oppure: esiste un fondamentalismo nel culto della vita di coppia? “Si dovrebbe essere atei rispetto all’amore, lasciare da parte dottrine altrui e desideri esterni che ti vengono attribuiti, modellando invece la vita di coppia su chi si è e su chi è l’altra persona. È un ideale, ovviamente. Ed è forse impossibile da raggiungere: siamo permeabili agli schemi sociali, siamo modellati dalle storie passate, dalle aspettative nostre e altrui, spesso prive di un reale legame con i nostri desideri più autentici”.
Dal pancione di Demi Moore su Vanity Fair USA la gravidanza è diventata un accessorio molto trendy. Una liberazione oppure no? “Che non sia un tabù è certamente una liberazione. Che la maternità sia in qualche modo tornata a essere una variabile nella definizione del valore della propria vita è invece molto triste. Capisco il desiderio di avere figli, non capisco invece il richiamo alla natura per attribuire a questo desiderio un carattere di ineluttabilità. “Le donne sono madri per natura”. Trovo questo continuo riferimento alla natura piuttosto ingenuo. In natura, per quello che vuol dire, probabilmente non ci sarebbe il desiderio di maternità, ma semplicemente gravidanze alternate a parti e allattamenti nel corso dell’intera vita fertile di una donna. In natura sopravvivrebbe forse un neonato su tre, gli adulti morirebbero a 35 o 40 anni e su questo pianeta non saremmo oltre 7 miliardi. La natura umana invece, secondo me, è anche operare la scelta di non avere figli”.