Il verbo pensare è inflazionatissimo. Forse però sono tante e diverse le azioni che facciamo quando diciamo di pensare: ci occupiamo di qualcosa, mettiamo in fila idee su un’agenda, fantastichiamo su amori vicini e lontani.
Forse pensare per davvero, costruire idee per vedere il mondo in un altro modo e magari comportarsi anche in un altro modo è assai più delicato e raro, più impegnativo e, diciamolo, anche più divertente, sempre che ci si diverta a cambiare pelle (e idea) ogni tanto. L’arte, fra le sue tantissime qualità sfuggenti quanto affascinanti, ha anche quella di costringerci a pensare sul serio, a cambiare l’immagine che abbiamo delle cose e del mondo, a stupirci, finalmente. Allora si può fare una scommessa: fermiamoci a pensare davvero, facciamoci abbracciare dalle idee di artisti che hanno percorso quella strada prima di noi, proviamo a pensare meglio, a guardare meglio, a cambiare meglio.
A Torino c’è un luogo che si chiama ‘Parco d’Arte Vivente’, lo ha ideato Piero Gilardi, protagonista dell’arte contemporanea italiana e di una importante retrospettiva in corso ora al MAXXI di Roma. Da sempre ha cercato di stupirci e farci pensare da un punto di vista insolito, più profondo e critico, la relazione fra uomo e natura, capendo in tempi non sospetti quanta parte della nostra vita e del nostro futuro si giocasse su quel delicato equilibrio. Al Parco d’Arte Vivente si crea, si vive, si pensa.
Ci siamo incuriositi e abbiamo chiesto qualcosa in più a Giulia Mengozzi, che fa parte dello staff curatoriale del PAV e che sabato 22 aprile alle 18.30 terrà l’incontro ‘Ecoagorà: conversazioni per un nuovo immaginario ecologico’ in Basilica palladiana a Vicenza, nell’ambito della mostra FLOW.
Il PAV è un centro sperimentale d’arte, cosa significa? Cosa succede? “Lo spazio espositivo del PAV comprende un’area verde di circa 23’000 metri quadri, un parco pubblico che va inteso come parte integrante del museo. Questo potrebbe già essere sufficientemente indicativo, rispetto al carattere sperimentale che muove le intenzioni del PAV sin dal primo progetto, risalente al 2002 e più volte modificatosi nel tempo. Credo che però, in tal senso, sia ancor più indicativo spiegare le modalità sperimentali di lavoro che si collocano in questo spazio già di per sé sperimentale. La finalità del PAV, infatti, non è quella di produrre mostre alle quali affiancare una serie di attività educative e di mediazione, ma di procedere a partire da una relazione non gerarchica tra questi due frangenti, attivando di fatto inediti processi relazionali e produttivi, a partire dagli stimoli offerti ed articolati dagli artisti che affrontano le tematiche dell’arte vivente. La programmazione artistica ibrida del PAV prende corpo in due frangenti inscindibili: il primo è l’Art Program diretto da Piero Gilardi insieme al direttore Bonanate e a tutta l’equipe del centro, che ha visto avvicendarsi una serie di curatori di fama internazionale come Nicolas Bourriaud, Gaia Bindi e negli ultimi tre anni, Marco Scotini. Vi sono poi le Attività Educative e Formative curate da Orietta Brombin, che si pongono l’obiettivo di coinvolgere il pubblico non solo per mezzo della mediazione delle mostre, ma anche – e soprattutto – tramite workshop e seminari condotti dagli artisti stessi, oltre a un programma aperto a tutti, con visite guidate, stage di formazione per insegnanti, operatori e studenti di tutte le età e per il pubblico adulto, senza mai perdere di vista l’importante parametro dell’accessibilità museale, entrando in contrasto con qualsivoglia concezione abilista della fruizione culturale. Il PAV anima anche una serie di iniziative museali dedicate ai giovani artisti, quali il festival per artisti emergenti Teatrum Botanicum, nato da un’idea di Marco Scotini. Un’ulteriore peculiarità del PAV sta nel fatto che il pubblico non frequenta soltanto mostre e laboratori, ma fruisce in modo conviviale dell’area verde e delle grandi installazioni permanenti quali Trèfle di Dominique Gonzalez-Foerster, Ortoarca di Andrea Caretto e Raffaella Spagna e Focolare del collettivo Terra Terra, installazione che comprende un forno – a disposizione di tutti, previa prenotazione – per la produzione di pane biologico. Il pubblico, nazionale ed internazionale, è formato tanto da persone interessante all’arte contemporanea quanto a chi è animato dalla sensibilità ecologica”.
Parco d’Arte Vivente. Vivente è un participio presente, racconta l’adesso, ciò che vive è il contemporaneo per eccellenza. “C’è un’opera molto famosa di Maurizio Nannucci, un neon blu che recita la scritta “all art has been contemporary”, tutta l’arte è stata contemporanea. Le scritte di Nannucci capeggiano dalle facciate dei musei di tutto il mondo e questa, in particolare, è stata collocata sia alla GAM di Torino, sia dietro il colonnato d’ingresso dell’Altes Museum di Berlino. Penso che proprio la giustapposizione tra le meravigliose collezioni dell’antichità classica qui ospitate e il riferimento all’arte contemporanea possa costituire uno stimolo per rispondere in maniera adeguata alla seconda parte di questa domanda: sì, è l’arte che cambia e, di conseguenza, cambia lo sguardo che rivolgiamo ad essa – il modo in cui la si vive. Se è vero che tutta l’arte è stata contemporanea (ed è vero), allora la produzione artistica non può e non deve essere intesa come un organismo immobile e cristallizzato che risponda ad una precisa definizione o si incastri in un dato contenitore.
L’arte, quando è davvero contemporanea, eccede le aspettative e si fa corpo – innumerevoli corpi – di quelle che sono le urgenze, i desideri, le paure e le proiezioni che caratterizzano il suo tempo – la cornice che ci dà il senso del suo essere ‘contemporanea’”.
…e quale è l’arte ‘vivente’? “Data questa premessa – per essere sempre contemporanea, l’arte è sempre mobile e cambia definendo diramazioni e linee d’indagine potenzialmente infinite – credo che la domanda “cosa si intende per arte vivente?” possa anche venir posta in un altro modo. Ovvero, perchè parlare di arte vivente? Perchè parlarne oggi? “[…] il connubio esperienziale di arte e natura costituisce uno dei varchi semantici che mettono in discussione le teorie antropologiche tradizionali, poiché inferisce sul rapporto tra bios e tècne smantellandone l’obsoleta dicotomia” (Piero Gilardi, Dalla Land Art alla Bioarte, 2007)
La definizione ‘arte vivente’ non risponde ad un genere specifico, ad un preciso mezzo espressivo o ad una tematica ben circoscritta. Il Parco Arte Vivente, concepito dall’artista Piero Gilardi e diretto da Enrico Bonanate, è nato sotto la spinta propulsiva della bioarte quanto dell’arte relazionale, raccogliendo l’eredità della Land Art e della riflessione post-human senza volersi esaurire in nessuno di questi frangenti. L’arte vivente, fatta di materiali organici ed inorganici – di piante e software sofisticati, di innesti di relazioni umane e documenti storici, di colture cellulari ed installazioni scultoree – è lo spazio d’intersezione tra pratiche artistiche, pensiero ed attivismo ecologico, osservazione dell’ambiente e modi di abitare ambienti ed ecosistemi”.
Vivente, contemporanea. Parliamo di un’arte che vive nel tempo come nello spazio e nella natura. Come si relazionale con il qui e ora del nostro tempo e del nostro mondo? “Credo si possa dire con una certa tranquillità che il vivente sia uno degli ambiti d’indagine più interessanti sui quali un artista (o un critico, un teorico, uno spettatore…) possa decidere di focalizzarsi. Quella posta dall’arte vivente è una questione estremamente contemporanea, in quanto scaturisce direttamente dalle dinamiche, dai rapporti di forza e dagli eventi che hanno determinato e determinano il nostro presente. Nell’epoca dell’Antropocene, nell’epoca in cui le cause antropogeniche del riscaldamento globale dettano (o dovrebbero dettare) le agende delle nazioni, l’arte vivente ci pone davanti all’urgenza di uno sforzo di ripensamento della nostra relazione con quello che l’uomo occidentale sembra aver eletto all’Altro per eccellenza, la natura, muovendosi in direzione dell’annullamento di quella dicotomia del pensiero che ci impedisce di vedere come, di fondo, natura e cultura (inteso come creazione culturale nel senso più ampio possibile) non solo siano in relazione, ma si costituiscano vicendevolmente. L’arte vivente mira ad un orizzonte non antropocentrico, mentre risponde a domande più che mai collegate alla nostra quotidianità. Ci fa osservare l’erosione delle coste, ad esempio, o l’impoverimento del cibo di cui ci nutriamo, svelandone il rapporto con il ricorso sfrenato ai combustibili fossili – quante volte usiamo l’automobile per andare a lavoro? Perché dovremmo essere a conoscenza delle politiche di aziende come la Monsanto? Quali sono le cause dell’acidificazione degli oceani? E quali le relazioni tra processi economici e biodiversità? Questo elenco potrebbe andare avanti ad oltranza, ma credo che questi pochi esempi siano sufficienti a comprendere cosa s’intenda quando si parla di un’arte che vuole rispondere, su più livelli, alle urgenze della nostra contemporaneità – e per questo è estremamente contemporanea e non si ripiega ad un ruolo di decoro passivo, pur essendo in primis una pratica estetica. Non è un caso che il PAV Parco Arte Vivente sia stato inaugurato nel 2008, un anno estremamente cruciale nella nostra storia più recente. Il 2008 è l’anno dell’esplosione della crisi economica che dal mercato immobiliare statunitense si è espansa su scala globale, rivelando le profonde falle del mercato post-fordista e dell’incontenibile finanzializzazione dell’economia. Nonostante i lavori per la creazione del centro siano cominciati anni prima, credo che questa coincidenza temporale possa funzionare molto bene nell’indicare come l’arte sia, a ben vedere, perfettamente in grado di rispondere al reticolato di processi che determinano la contemporaneità. Se da una parte nel 2008 assistiamo alla deflagrazione degli aspetti più marcescenti di un’economia basata sull’astrazione del valore e sulla più assoluta iniquità in termini di redistribuzione delle risorse, a Torino, nel suo piccolo, un gruppo di persone estremamente motivate riesce a sovvertire il decadimento di uno spazio urbano causato proprio dalla fallacia dell’economia e della sua globalizzazione, facendo sì che laddove un tempo si trovava una fabbrica, l’area ex Framtek, sorgesse il PAV, un centro d’arte contemporanea capace di rigenerare il territorio e valorizzare al meglio la relazione tra natura e cultura”.
In quali punti l’arte, che è frutto di un processo di rappresentazione mentale, può incontrare la natura? “Nella domanda precedente, sostengo che l’arte vivente “non si ripiega ad un ruolo di decoro passivo, pur essendo in primis una pratica estetica”. Nel testo “Commons Art – Le odierne esperienze relazionali della Bioarte”, Piero Gilardi riprende le parole di Félix Guattari, parlando, nello specifico, di “paradigma estetico”. In quest’ottica, non c’è nulla di limitato nel definire l’arte vivente una “pratica estetica”, dal momento in cui Guattari auspica ad un paradigma etico-estetico nel quale l’arte si muova a partire “dalle sue tecniche, dai processi della creazione, dalle pratiche, per farla evolvere in altri domini, per giocar con essa dal di fuori” (cit. Maurizio Lazzarato). Quando l’arte eccede il ruolo di decoro (una concezione dell’arte tremendamente, banalmente e pericolosamente noiosa, che purtroppo sembra persistere tutt’oggi) allora l’arte non solo può incontrare la natura, ma genera processi che ci spingono a guardare diversamente ad essa, a ricollocarci in maniera cosciente al suo interno. L’uomo non abita la natura come se questa fosse una scenografia. L’uomo è parte integrante della natura, la determina ed ne è determinato e questo avviene anche attraverso l’arte. Come una creatura vivente, anche le forme d’arte più tecnologiche sono come una seconda natura, la riflettono, permettono di esperirla e tutelarla. Potrei fare tantissimi esempi pratici: penso a New Alliances del Critical Art Ensemble (CAE), che sfrutta lo statuto legale delle piante protette per tutelare la stessa esistenza del PAV. O alle pratiche di ascolto dello spazio urbano degli Ultra-Red, o ancora ai visionari progetti di produzione di fonti energetiche sostenibili di Peter Fend, che da decenni porta avanti una ricerca sulle potenzialità delle alghe. E poi il progetto di Amy Balkin finalizzato all’acquisizione di porzioni di atmosfera da sottrarre all’inquinamento, o il progetto di residenze artistiche in aree rurali della Spagna di Fernando Garcia-Dory, Campo Adentro – alcuni degli artisti citati hanno collaborato con il PAV. Di nuovo, come nella domanda precedente, questa lista è potenzialmente infinita. La quasi totalità delle opere di Piero Gilardi s’inserisce nel solco tracciato dall’incontro tra arte e natura, dagli ormai celeberrimi tappeti fino ai suoi progetti più recenti, nei quali la dimensione scultorea e quella tecnologico-interattiva funzionano da attivatori di relazioni tra lo spettatore e l’ambiente. Pensiamo ad Apiaria (2016), installazione ospitata dal PAV tramite la quale osservare la vita delle api da vicino, coinvolgendo i sensi nella loro pluralità – grazie ad un software, il movimento delle api viene letteralmente messo in musica. Pensiamo anche alla recentissima installazione La Tempesta Perfetta (2017), vero e proprio mezzo di divulgazione estetico atto a sensibilizzare lo spettatore rispetto alla questione del riscaldamento globale”.
L’arte può intervenire nell’evoluzione del pensiero sulla natura o è più comune che accada il contrario? “Per quanto complesso, credo sia necessario ripensare il rapporto tra natura ed arte (e per esteso, qualsiasi manifestazione culturale umana) in termini non dicotomici, proponendo rappresentazioni diverse di questo rapporto. Mi spiego: finché continueremo a pensare alla cultura e alla natura come a due entità separate e scisse, che possono eventualmente influenzarci a vicenda, non riusciremo a cogliere il nesso necessario per comprendere gli inestricabili reticoli di relazioni che determinano il nostro stare al mondo e nella natura – come esseri umani e nello specifico come artisti. Credo che i nostri interrogativi non debbano partire da un’osservazione distaccata dei processi naturali, ma che dovremmo in primis analizzare il nostro modo di abitare la natura e riflettere sulle responsabilità che questo comporta, anche per l’arte – riflettere sulla nostra response ability, per dirla con le parole di Donna Haraway. Vorrei concludere la risposta a questa complessa domanda citando un testo nel quale il sociologo, antropologo e filosofo francese Bruno Latour affronta la questione dell’Antropocene. “What does it mean to redistribute human agency without being humanist, or post human, or anti-humanist?”