Ci beviamo un bel thè caldo, fila ai bagni, chiacchieriamo del più e del meno per ingannare l’attesa ed io mi guardo continuamente in giro per non perdermi nemmeno un secondo di questa meravigliosa esperienza che ho tanto voluto, tanto atteso e che mi voglio vivere al meglio fino alla fine.
Barbara, amante del trial e delle corse in montagna, non ha aspettative, vuole correre per il gusto di correre e arrivare alla fine della maratona, Franco rifiuta perfino le foto ricordo e con aria scocciata mostra il pettorale ogni volta che io e Barbara lo invitiamo a mettersi in posa con noi di fronte alle decine di fotografi dell’organizzazione, a lui non interessa il tempo, non interessa nulla delle tattiche di gare, lui vuole portare a termine la sua over 50° maratona all’età di 66 anni… certo LUI è uno di quelli che corre la 100 kilometri del Sahara e a fatica comprende tutto il mio entusiasmo e l’eccitazione di correre LA (questa) Maratona di Londra.
Io per la verità un mio obiettivo finale ce l’ho, ma non lo dico, lo tengo scaramanticamente per me, che se poi non riesco a portarlo a termine almeno non ho nulla da giustificare.
A mezz’ora dalla partenza ci separiamo ed entriamo ognuno nel proprio cancello assegnato dal numero di gara, io sono al 5, entro, mi siedo sul marciapiede e aspetto. Seduta si sente meno il freddo, decido di tenere la felpa fino alla fine, e mi maledico per aver dimenticato di portare ancora una volta il sacchetto della “rumenta”, sicuramente poco fashion ma di certo molto utile per l’aria e per la pioggerellina. Ma oggi Londra mi è amica, e spunta un raggio di sole che scalda quel tanto che basta per sentire meno il freddo, il sole, contro ogni previsione, resterà per tutto il resto della gara.
Allo starter ci avviciniamo piano piano alla linea di partenza e quando finalmente la taglio sono già passati 4 minuti, 4 minuti da tenere in saccoccia per il tempo finale. Mi guardo intorno e dalle tribune la gente inneggia e tifa con un entusiasmo che fa venire i brividi. E lì in mezzo, proprio lassù ci sono anche Kate, Will ed Harry a tifare per noi pazzi che ci accingiamo a percorrere questo lungo e magnifico viaggio di 42 kilometri o 26 miglia se vogliamo ingannare la testa e rendere la cosa meno invasiva. (Illusa io).
Passato il rettilineo della partenza ci buttiamo per le strade di Greenwich, carina, mai stata prima, forse dovrei tornarci con calma, se non ricordo male ci si può arrivare diretti con il battello dal London Eye, magari ci torno e vado anche a vedere il famoso Meridiano. Intanto batto il cinque ai bimbi che insieme alle famiglie sono in fila lungo tutto il percorso di gara, che meraviglia, che emozione, amo questo posto, mi sento come un bambino in un negozio di dolci, sono estasiata e intontita, mi guardo continuamente in giro e vedo vicino a me un runner vestito da Amleto, da cosa lo riconosco? Dal teschio che tiene in mano e dal fatto che molto tranquillamente glielo chiedo e gli chiedo anche perché abbiamo deciso di correre la maratona vestito così, scommessa mi risponde e considerato, che fatica a parlare (in tutti i sensi), mollo il colpo e mi allontano, in effetti, il sole ora splende forte e comincia a fare decisamente caldo.
Più avanti incrocio un altro runner vestito da Crociato (o da Cavaliere non capisco!), quello che vedo è che indossa una maglia in ferro o alluminio sotto una tunica bianca con croce rossa, lo guardo e penso che i runners sono tutti un po’ strani chi più e chi meno, per questo li trovo straordinari, chissà forse lo fa per una scommessa, per un pegno da pagare, per charity o semplicemente perché gli va di farlo. Non sarà l’unico a correre vestito così, ne incrocerò molti altri lungo il percorso. Tanti vestiti da Tyrannosaurus Rex, da Drago, gente che corre a piedi nudi, persone in maschera e perfino uno che porta sulle spalle una lavatrice, si una lavatrice vera, svuotata all’interno ovviamente ma sempre di una carcassa di lavatrice portata sulle spalle per 42 kilometri si tratta.
Cerco di impostare la mia andatura, senza forzare troppo, un occhio al Garmin e un occhio a quello che mi succede intorno, non voglio perdermi una sola emozione di questa fantastica avventura. Le gambe vanno bene, nessun dolore, ho deciso di tenere il taping sulla coscia sinistra per evitare dolori o ripercussioni post gara e credo sia stata la decisione giusta.
Continuo così fino ai 17 kilometri, prestando massima attenzione ai messaggi che il mio corpo mi manda via via che macino kilometri, quando a un certo punto sento dietro di me un caos infernale di musica e cori da stadio mi giro e vedo che sono i pacer seguiti da un foltissimo gruppo di runner, “oh cavolo no!!” penso tra me e me, “eccoli qua…” e mi prende un mezzo secondo di sconforto fino a quando non leggo sulle loro bandiere il tempo: 3.45… ssssì evvai! Sono “solo” i pacer delle 3 ore e 45 minuti e io che mi credevo fossero già quelli della 4 ore, sorrido e mi aggrego al gruppo.
Una lotta correre lì dietro, gomitate, gente che ti taglia la strada per raggiungere il ristoro , gente che si attacca dietro di te senza perdere un centimetro del tuo passo, condizionando in maniera indiretta la tua gara. Che problema hanno? Non mi piace, ho bisogno e voglia del mio spazio vitale e di poter correre tranquilla, ma diversamente da altre maratone, il gruppone non si sgrana si corre tutti compatti uno vicino all’altra, mi prende male pensare di arrivare al 42° kilometro in questa situazione.
Del resto, le strade non sono poi così larghe, e tra le transenne col pubblico, i ristori posizionati su ambo i lati del percorso, anche solo superare diventa una impresa. Forse è solo la fatica che comincia a farsi sentire, il sole e il caldo non danno tregua e quando la stanchezza inizia a farsi sentire, si comincia ad essere poco obiettivi e a vedere tutto nero. Prendo la mia busta di integratore per tirarmi un po’ su e riprendere le forze e il controllo, e subito dopo l’ennesima curva in salita eccolo il Tower Bridge: quante volte ho sognato questo momento guardando le foto delle passate edizioni, non piangere non piangere non piangere mi ripeto come un mantra, ma tutto inutile metto piede sul ponte e già sono una fontana, fatico a respirare, rallento il passo e decido di godermela “‘fanbagno il tempo”.
Mi guardo interno tra le lacrime e comincio a dimenarmi, saluto, batto il cinque e mando baci a chi è li dalla mattina presto per fare il tifo per noi, per me. Alla mia sinistra la Torre di Londra, quanto amo quel posto, la guardo con tutta l’intensità del momento ed è un attimo, una curva a destra e si staglia un lungo viale The Higway che ci porterà di nuovo verso la parte Est della città, una strada che ripercorreremo anche al ritorno, verso il traguardo.
Un viale lungo, noioso, sotto un sole caldo, fatto di falsi piani e “strappettini “ maledetti che dovrai rifare in salita al ritorno quando nelle gambe ci saranno molti più kilometri e meno voglia di correre, ma anche qua non siamo soli, il tifo è alto, incessante, entusiasmante, coinvolgente a tratti perfino commovente. Gli inglesi così freddi e privi di emozioni, sanno invece darti una carica pazzesca, anche solo con un sorriso, una stretta di mano, anche solo per… essere lì, ora.
Ecco la curva di Aspen Way, una V e siamo sulla via di ritorno, sulla The Higway sono ormai già 35, comincio a sentire un dolore fastidioso alla pianta del piede destro, cerco di cambiare l’appoggio dei piedi, ma ho paura di fare danni, allora stringo i denti, cerco di pensare ad altro, ne mancano 7 alla fine, no ne mancano 5 ai 40, dai 40 ne mancheranno 2 al traguardo. Ragiono a breve termine, butto un occhio al Garmin, la media è buona, MA se non abbatto il muro delle 4 ore che mi invento? Che sono caduta? Che ho incrociato un amico che non vedevo da tempo e mi sono fermata a salutare? Male alla coscia…? Sento il fiato sul collo degli amici, di mamma e papà, di Coach Matteo, che sono sicura saranno attaccati al pc o al telefono, per vedere cosa sto combinando… maledette App, maledetta tecnologia che permette di monitorarci secondo per secondo… qui le stronzate non si possono raccontare… ma poi, in fondo, chi se ne frega… Se anche non la finisco sotto le 4 ore che male c’è? Mi sto divertendo, me la sto godendo, chissenefrega del tempo, non sarà mica la fine del mondo no?
Peccato che per mesi mi sia allenata proprio per questo, vogliamo mandare tutto a ramengo? Ora? Quando mancano 4 kilometri?
Sì i fantasmi e i cattivi pensieri stanno avendo la meglio su di me, ed io mi lascio tentare, ancora 1 kilometro e rallento, manca poco, non ce la faccio più, ho dolori ovunque, non sento più nemmeno il formicolio alla pianta dei piedi, ormai entrambe addormentati da un po’… sarà normale? … sarà sano?
Mica perderò ancora le unghie? proprio adesso che inizia la bella stagione…
E poi eccolo là il Big Ben, alto maestoso, manca davvero poco e rimbombano in testa le parole di Chiara la nostra referente di viaggio, che ci ha detto stamattina all’alba prima di salutarci: “ vi aspetto sotto la Torre del Big Ben quando ormai avrete corso 41 kilometri”… una promessa, uno stimolo, in realtà stamattina mi era sembrato più un miraggio ed ora eccoci qua.
Uno sguardo al Big Ben alla mia sinistra e poi eccolo il cartello tanto sognato e tanto agognato… “LAST KILOMETRE”… e allora in un ultimo riscatto di orgoglio e di felicità immensa aumento il passo, mi fiondo di fronte a tutti i fotografi possibili e immaginabili e sfoggio il mio miglior sorriso e corro come una pazza, arrivo a Buckingham Palace percorrendo quell’ultimo kilometro che sembra non finire mai, a perdifiato, ecco i cancelli neri con stemma dorato, ecco il Victoria Monument, un ultimo sforzo ed eccomi su The Mall...vedo in lontananza il tabellone dei tempi, c’è un maledetto 3 là davanti… è un attimo realizzo che sono decisamente sotto le 4 ore….E corro come mai ho fatto in vita mia quei 195 metri che mi separano dalla linea del traguardo, i muscoli bruciano, fatico a respirare, forse vomiterò, ma chi se ne frega, il mio obiettivo è li davanti che mi sta aspettando…E sono 3.59 e rotti con lo scarto dei 4 minuti iniziali sono esattamente 3 ore 54 minuti e una manciata di secondi…
Goal accomplished e ciao a tutti.
La volontaria che mi mette la medaglia al collo mi sorride e mi regala una carezza sulla guancia, le lacrime iniziano a scendere a fontana e di colpo mi passano di fronte tutti gli allenamenti, i cazziatoni del Coach, tutte le volte che dovevo allenarmi e non ne avevo voglia, la pioggia, la neve, i sabati e le domeniche in cui avrei voluto dormire. Le vesciche, i lividi, l’orgoglio ferito, le sedute dolorose dal fisioterapista, i taping colorati che coprono le botte violacee di una terapia trascurata e mai affrontata.
Certo avessi fatto meno la cazzona e stretto un pochino di più i denti avremmo rosicato qualcosina di più.
La sensazione? Quella di libertà, quella di onnipotenza, quella dell’aver compiuto fino in fondo il proprio dovere, quella di avere abbattuto ancora una volta i proprio limiti, quella di avere affrontato e sconfitto paure recondite.
Quella di aver già programmato la prossima maratona e di essersi iscritta al ballottaggio della Maratona di Londra 2018 perché voglio provare finché potrò, ancora e ancora quella fatica, quel dolore e quella maledetta sensazione di libertà e di gioia immensa che solo tagliare il traguardo alla fine di una maratona ti riesce a dare.