“Riesco a catturare l’anima delle persone, l’emozione nel reportage e la vita nei luoghi senza vita”.
Chi parla è Alan Pasotti che con l’anima, l’emozione, il viaggio e l’introspezione, ha un link da sempre molto speciale.
Il fotografo, 43 anni, e una vita tra l’Italia e la Spagna, è notevolmente schivo. Talmente schivo che anche un suo ritratto diventa per lui, a prescindere da una forma di timidezza, un voler togliere il focus sulle sue immagini, sul suo lavoro, sul suo occhio fotografico: unica espressione di attenzione.
Pasotti, nato e cresciuto in Messico e poi trasferitosi in Italia, racconta questa settimana per Focus On le sue fotografie che lo portano a spaziare, tra gli editoriali, il reportage, gli still life. Tutto con un’unica strada … la nuda verità – attraverso le foto – dell’anima.
Che ricordi ha di Città Del Messico dove è nato e ha trascorso la sua infanzia e in che modo la cultura messicana pensa abbia influenzato sulle sue immagini? I ricordi più belli, quelli di un’infanzia serena e felice. Fatta di cose semplici, di una famiglia presente e di una cultura che ha dell’inverosimile. Ero un bambino molto coccolato, non per questo viziato, anche se, non mi è mai mancato nulla. Qualsiasi cosa io volessi, se nelle possibilità dei miei genitori sarebbe stata mia, guadagnandomela attraverso i classici buoni voti a scuola. Il folklore di una cultura che ha radici ben più lontane del “vecchio mondo” ha influito non solo sulle mie immagini, ma sull’intera mia visione del mondo. Crescere nella città più grande del mondo segna. Segnano i lati positivi, di più quelli negativi. Le prime “fotografie” che videro i miei occhi risalgono ad una delle tragedie più forti del mio paese. Parlo di palazzi distrutti, di gente senza più una casa, di macerie miste mattoni e oggetti di uso quotidiano. Il terremoto del 1985 aprì una voragine di immagini nella mia mente e nel mio cuore. Vedevo in ogni angolo la vita, dove la vita, non c’era più. Per molti un giocattolo rotto sotto alle macerie, era un giocattolo rotto, per me no, per me era un bambino assorto in una storia, un giocattolo rotto, non era un oggetto, era vita.
Mi racconta i suoi inizi e il suo approccio alla fotografia? A dire il vero non sono in grado di dire esattamente in quale momento mi appassionai alla fotografia. Il ricordo più lontano che ho, è quello dove dal finestrino dell’auto vedevo il mondo attorno a me, mi fissavo su un particolare e vi costruivo attorno la storia. Con gli anni, la fotografia mentale, chiamiamola così, non mi bastava più. La prima macchina fotografica fu una FUJI, rullino a 35 mm rettangolare. Sono passato poi ad una KODAK, e al modernissimo rullino classico che tutti ricordiamo. Nel 1989 comprai con delle sudatissime rate la mia prima NIKON, una bellissima F50. La mia piccolina. Da lì in poi, Nikon fa parte della mia vita. Sempre maggiore la qualità digitale, tant’è che ora scatto con una D5.
Quali sono i tratti e gli elementi che caratterizzano le sue immagini e che sente siano il suo plus? Non sono così presuntuoso da poterlo affermare, Le posso dire che la frase che mi viene detta maggiormente, siano fotografie in posa o reportage di persone: riesco a catturare l’anima delle persone, l’emozione nel reportage e la vita nei luoghi senza vita. (abbandonanti o dismessi di cui nutro una grandissima passione)
Analogico o Digitale? Come ha vissuto questo passaggio? Beh, chi è nato con il rullino non può non sentirne la nostalgia. Era più difficile realizzare la fotografia, dovevi veramente fare i conti con le tue capacità. Oggi il digitale ci aiuta moltissimo, anche se, chi scatta digitale e pensa in analogico, ottiene risultati in minor tempo. La fotografia, bisogna vederla ancora prima di farla. Ho vissuto benissimo il passaggio, passare da tre rullini al mese di 24 scatti a centinaia di possibilità con il digitale, è un gran bel vantaggio.
Quale dei suoi colleghi stima particolarmente per il suo lavoro e si sente professionalmente legato? Con l’avvento del digitale chiunque acquisti una reflex si firma “photographer” ci sono quelli che anche no, talenti indiscutibili (tanto di cappello), ci sono professionisti e ci sono professionisti di talento, fra quest’ultimi vi è un ragazzo Madrileno: Valero Rioja. Le fotografie che crea sono corpose, dannatamente vive. Ammiro molto il suo lavoro. Non mi sento legato particolarmente a qualcuno. La fotografia è un modo di vivere, ognuno ha un suo stile, ognuno ha una sua visione del mondo.
Quali sono i suoi prossimi progetti? Il più grande progetto è quello di andare a vivere a Barcellona, città che mi ha rapito il cuore tre anni fa. La fotografia è un mondo molto complesso, ma a 43 anni, non mi sento di poter fare altro. Non voglio fare altro. Sto imbastendo alcuni progetti di beneficenza coinvolgendo alcuni atleti nazionali. Visto il successo delle prime due edizioni continuerò presenterò altri workshop. Chiedere ad un fotografo quali siano i progetti futuri è una domanda molto difficile alla quale rispondere. Noi congeliamo il tempo, per noi, il futuro apparterrà sempre alla storia grazie al nostro modo di vedere la vita. Progetti futuri? Fotografare.