Dopo la nevicata che sappiamo, Burian e i ghiacci che hanno imperversato e ancora imperversano un po’ troppo qui in pianura, il ciclismo praticato è messo a dura prova. Un’occhiata su Strava e si vede che sono davvero pochi gli eroici combattenti che osano sfidare il maltempo. Da parte mia in questi giorni ho scelto una temporanea astinenza, intervallata dai rulli, perché il rischio, con tutto questo umido freddo nei polmoni, è senz’altro quello di prendersi un malanno. E poi è dura farselo passare, se arrivasse una brutta tosse, con la primavera che, no panic, sta comunque avanzando. Abbiamo fede.
Così ci sono quegli appuntamenti serali, organizzati nei luoghi topici della bici, che io amo pensare servano a tenere compatta la comunità anche in questi grami tempi di guerra (con il clima) e possano contribuire ad esorcizzare insieme la paura dell’uomo primitivo che c’è in ognuno di noi e che pensa che no, la primavera non arriverà mai ed è meglio quindi rinchiudersi nella propria grotta. Con i rulli, naturalmente.
Così è sicuramente stato sabato scorso l’appuntamento da UpCycle dedicato ai “Bike Travellers” con Dino Lazzaretti (per chi se lo fosse perso, come me, può vedere il video cliccando qui), e poi l’incontro con Sergio Meda e Fabrizio Delmati da Equilibrio Urbano per la presentazione informale del libro “Il Giro in vetrina”.
È bello infatti consolarsi della mancanza di autentici giri di pedale in strada o in velodromo con due che di Giri (d’Italia) ne hanno visti tanti quasi come le mie primavere.
Naturalmente, come piace a me, arrivo all’appuntamento senza sapere nulla. Si era sparsa voce sulla presenza di Gianni Bugno, che poi per impegni in corso, non si è visto, e un po’ di curiosità l’avrei avuta sul personaggio perché so che è il campione preferito di tanti, proprio perché non ha vinto quanto avrebbe potuto. Si sa che nel ciclismo, molto più di frequente che nel calcio che forse può vantare in questo senso solo l’icona dolente di Baggio davanti al dischetto del fallito rigore più tragico di sempre, si sa, appunto, che gli eroi più amati sono quelli che hanno trionfato, ma anche quelli che hanno trionfalmente perso le grandi occasioni della vita, mancato per un soffio l’obiettivo di sempre, indossato la “maglia nera” del Giro pur lavorando sodo, anzi, magari proprio perché lavoravano sodo, ma da gregari.
Così è commovente la foto del gregario con le tasche sulla schiena piene di grandi bottiglie d’acqua. Uno sherpa del ciclismo. E il commento di Sergio Meda non lascia spazio all’immaginazione: “allora i gregari i rifornimenti per l’intera squadra dovevano andarseli a prendere…”. Niente sconti per chi correva e spesso lo faceva anche per pochi soldi all’anno. Così i corridori un tempo erano decisamente più vicini alla gente. Oggi c’è il pullman della squadra che li porta di tappa in tappa. Vetri oscurati. Silenzio, i corridori si devono concentrare sulla corsa.
In passato invece il rito della punzonatura prima della gara, rimasto in auge oggi solo al Tour de France, consentiva autentici bagni di folla, forse anche propiziatori. E c’era il nonno che faceva la foto al nipotino in braccio al campione, intere famiglie che volevano vedere da vicino le gambe e le facce di chi avrebbe di lì a poco scalato magari il Mortirolo con sublime dedizione per il proprio capitano. Dedizione che poteva anche tradursi nell’aneddoto del telefono presidiato dal gregario. Il capitano doveva telefonare alla sua famiglia? Nell’albergo che ospitava la squadra durante il Giro c’era sempre qualcuno che teneva la cabina, per dare la possibilità immediata al capitano di telefonare, quando sarebbe sceso per la cena. E nell’attesa però chiamava la fidanzata… così spesso nelle hall risuonava la voce concitata: “ciao-ciao amore, è arrivato il capitàn, ti devo lasciare, ciao…!”. Naturalmente da leggersi con accento veneto/bresciano… con lo stesso stile di “ciao mama sono contento di essere arrivato uno”, passato ormai alla storia.
La gente insomma aveva la possibilità di vedere più da vicino i suoi eroi, apprezzandone anche i lati più irresistibilmente umani. Come le grandi bevute (di birra) dell’altrettanto grande Eddy Merckx, che poteva poi passare la notte in bagno e l’indomani vincere una tappa.
Ma è sulle montagne del Giro, dove le salite rallentano l’andatura, che il pubblico del ciclismo, da sempre partecipe fino all’identificazione nella sofferenza del proprio beniamino, può vedere da vicino sudore, muscoli tesi e smorfie di dolore. In particolare è sulle Tre Cime di Lavaredo del Giro dell’81 che Riccardo Magrini, ospite alla presentazione, ricorda di non aver mai visto in vita sua una tale marea umana. Ali di folla rischiavano di chiudersi al passaggio dei corridori.
Era l’anno in cui il Giro lo vinse Battaglin mentre Contini, che su quelle salite era ancora maglia rosa, continuava a perdere terreno. Si correva in linea da quanta gente c’era ai margini della stretta strada e così il “Magro” che era subito dietro a lui, dietro alla temporanea maglia rosa, poteva godersi lo spettacolo delle spinte al leader in difficoltà. Qualche spintarella arrivò anche a Magrini? Eh no… subito dietro di lui c’era Fraccaro, un autoctono, uno di quelle valli e così, tra maglia rosa e corridore locale, al “Magro” ne arrivarono solo due o tre di spinte, forse anche per sbaglio, contro le venti e più che accarezzarono le chiappe degli altri due.
Chiappe… un termine pratico per descrivere il “didietro” che pare scandalizzasse molto Gianni Brera tanto che, ricorda Sergio Meda, riuscì a coniare un nuovo termine che potremmo definire elegantemente tecnico e assai poco fisico: “soprassella”. E lo scandalo comunque fu risonante quando apparvero i primi calzoncini in nylon. Ma fu anche una grande rivoluzione. Chi non li aveva ancora, come Magrini ai primi tempi, sognava di agguantarne finalmente un paio. Con la loro moderna aerodinamicità erano psicologicamente forieri di vittoria. Ma la vistosa aderenza, i colori sgargianti (Magro li ottenne rossi e “fuorilegge”) e, nel caso di Castelli, i grossi scorpioni stampati, appunto, sulle chiappe, facevano a cazzotti con i regolamenti che, ancora nei primi anni ’80, imponevano il rigoroso nero del calzoncino abbinato al candore dei calzini. Le regole tuttavia sono fatte per essere sovvertite ed è così che scopro che il mio omonimo campione, Fiorenzo Magni, fu il primo a portare la vera pubblicità al Giro. Non conoscevo questa storia, non sapevo delle doti nascoste di pubblicitario di Magni… Fu lui infatti a salvare la squadra in cui correva con tutti i suoi gregari dalla rinuncia al Giro del ’54 per mancanza di risorse, invitando per la prima volta uno sponsor estraneo alla bicicletta, ovvero la crema Nivea. Nel libro di Sergio Meda e di Fabrizio Delmati si racconta dell’incontro in Svizzera con il patron che staccò il primo assegno e dell’aiuto insperato che arrivò dall’eterno rivale Fausto Coppi quando il Tour minacciava di estromettere la squadra di Magni proprio a causa del sostegno da parte di un’azienda extra-settore, cosa all’epoca ancora proibita. Fausto Coppi minacciò allora di autoescludersi anche lui dal Tour de France e così, visto che il Campionissimo lo era all over the world, persino per i francesi, la nuova idea di Magni passò, insieme a tutta la sua squadra.
Ma le grandi case ciclistiche, sempre più in debito d’ossigeno visto che la bici, per gli italiani degli anni ’50, era legata al brutto ricordo della vita grama durante la guerra e tutti scalpitavano invece per possedere finalmente i prodotti motorizzati della famiglia Agnelli, avrebbero avuto bisogno di partner sempre più visibili per continuare ad organizzare il Giro. Il resto della storia infatti la conosciamo. Dall’idea di Magni sono poi stati tanti gli appassionati patron che hanno scommesso sul Giro per far volare i loro prodotti in testa alle classifiche di vendita. Ed oggi ancora, anche se i nostri amici del libro rimpiangono la passione autentica dei vecchi proprietari d’azienda, ci sono tanti manager che costruiscono imperi di visibilità sulle maglie dei campioni.
La sala di Equilibrio Urbano, forse animata dal racconto dei tanti aneddoti, è ormai più calda di un rifugio di montagna. E non sono pochi così i brividi che scuotono gli astanti all’improvviso spalancarsi della porta. Chi è a quest’ora? Ma è Ivan Basso! Entra in scena un grande campione con il tempismo di una regia che potrebbe essere di Bruno Vespa. Salutato dall’applauso di tutti entra con naturalezza nel discorso, proprio come se i gregari gli avessero spianato la strada e fosse giunto qui con noi, in testa alla corsa, fresco e riposato per lo sprint finale.
Proiettata sullo schermo occhieggia una foto memorabile che lo ritrae nel giorno della vittoria in Aprica nel 2006. Giorno in cui nacque suo figlio, ricorda ancora commosso il campione che assicura: “quando si smette di correre ciò che non va mai via è l’affetto dei tifosi”. La sua è stata una rapida incursione. Deve tornare ad un evento dal quale si è temporaneamente staccato per venire a salutarci. Gli scatto una foto mentre attraversa il corridoio proprio accanto a me e vedo la sua mano accennare ad un gesto nella mia direzione. Indecisa tra il ruolo di fotografa e tifosa non riesco a corrispondere in tempo. Che peccato! Era una bella mano da stringere.
A fine sera arriverà però un’altra mano di cui ricordare la stretta, quella di Sergio Meda. Con la sua bella calligrafia da cronista del ciclismo, rapido e incisivo come il protagonista di una fuga, scriverà per me una dedica memorabile: “A Laura Magni, parente ad honorem”.
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