Benedetti bambini che ci spiazzano ogni tanto con domande che solo a noi grandi sembrano assurde! Carlo Baroni, artista anzi artigiano dei due mondi, lo ha provato sulla sua pelle e ne ha fatto il titolo di una mostra e una sintesi della sua visione delle cose, che prevede quella dose di verità impossibile senza un’iniezione di ingenuità.
Usa da sempre materiali poveri, riciclati, tanto fil di ferro per il quale chi scrive confessa un’assoluta debolezza forse per la capacità di essere forte e docile, resistente e leggero. Carlo Baroni si è formato viaggiando e sperimentando, cercando strade e soprattutto ponti fra l’astrazione inevitabile e fondamentale dell’arte e la sua dimensione più terrena e concreta, che è fatta di mani che lavorano, che toccano e scelgono materie, dipingono e plasmano. Come si possa trovare questo equilibrio lo abbiamo chiesto a lui: ecco il risultato.
Perché il maiale non è azzurro? E’ il titolo di una mia mostra di terrecotte e smalti del 2013 a Brescia. Le opere rappresentavano città immaginarie. Il mio lavoro si ispira sempre al gioco, all’infanzia, alla mitologia e alla storia, sia personale che universale. E qui riportai alla luce una domanda che mi fece Bianca, mia figlia, un’estate di tanti anni fa a Formentera, dove stavo lavorando. Bianca, allora bambina, tutti i giorni voleva andare ad una porcilaia sulla strada di casa. Era diventato un rito: fermavo l’auto, lei correva alla porta della porcilaia e tornava delusa dicendomi che non aveva visto il maiale. Così per giorni, finché un pomeriggio finalmente ebbe la visione del maiale e tornò di corsa urlando: “L’ho visto!! Ma perché non è azzurro?”. Stupito chiesi il perché di questa domanda e lei rispose: ” Mi hai sempre letto la storia dove i maiali sono azzurri e le galline a pois”. E questo venne a galla lavorando sulle città e ragionando su come queste soffocano l’immaginario dei bambini e delle persone, privandone il contatto con la natura. Mia figlia a quell’epoca sapeva disegnare città ma non aveva un’idea di uno zoo domestico.
L’arte contemporanea è spesso slegata dalla produzione materiale dell’oggetto: l’idea dell’artista viene affidata a artigiani terzi. Che ruolo hanno le mani per te? Ti piace l’arte senza artigianalità? Mi definisco artigiano e non artista da sempre. Io uso le mani, amo usarle e creare senza delegare. Comunque l’Arte è l’idea e non la parte dell’esecuzione.
Scegli materiali poveri, antichi, contadini. Perché? Come scegli, di volta in volta, quale utilizzare per dare forma a un’idea? Da sempre io seguo il filo che sia di ferro o di lana o di altri materiali. Cresco come artista durante la pop art e le mie radici vere sono quelle. L’utilizzo di materiali poveri, di riciclo e trovati, tipici dell’Arte Povera degli anni’70 mi hanno influenzato e tuttora mi accompagnano. Amo trasformare, immaginare e di volta in volta vengo portato via da qualcosa. Ora sono i sassi, le pietre che sto scolpendo e che riproducono antiche archeologie aliene.
Ti occupi anche di fotografia, comunicazione e immagine. Che rapporto hai con il pubblico? L’arte deve essere sempre vista per essere tale? Non sono un fotografo. Uso con molto pudore la fotografia. Mi permette di studiare, di prendere appunti, di seguire l’evoluzione dei miei lavori e ora anche di comunicare cosa sto facendo tramite i social che sono un mezzo potente che riconosco ma che non appartiene alla mia generazione. L’arte per me è da vedere e possibilmente toccare. Deve essere fruibile a tutti. Tutti devono poter usufruire dei molteplici messaggi contenuti in un’opera d’arte, non è sufficiente guardare un’immagine. Dovrebbero esserci più esposizioni sulle piazze, fuori dai musei. Gli artisti riconosciuti dovrebbero poter posizionare le loro opere in spazi pubblici, aperti sotto il cielo. Nell’opera d’arte c’è la necessita di un’interazione con chi la vede. Per l’artista c’è il bisogno di un riscontro.
Vivi e lavori in Lombardia ma hai viaggiato e continui a viaggiare molto. Esiste un legame fra l’arte e i luoghi? Vedi cambiare il tuo linguaggio cambiando latitudine? Ho vissuto in Brasile dal ’77 all’80 lavorando con latte e fili di ferro. Rientrato a Brescia ho creato una linea di maglieria, pezzi unici ricamati a mano. Poi mi sono trasferito a Bologna negli anni’90, aprendo uno studio frequentato da diversi personaggi, come Freak Antoni, Andrea Renzini e altri. Ora mi muovo tra Milano, Brescia e la Puglia. Ho un legame immediatamente spontaneo con ogni luogo dove vivo e ho vissuto come qualcosa di astrale, esoterico, ancestrale. Ogni posto ha la sua energia, parla di colori, ha suoni, spazi e temperature differenti. E tutte le volte imparo un nuovo linguaggio perché automaticamente mi trovo trasportato nella storia, nell’inconscio collettivo, nel sociale. L’arte ha una funzione sociale unica.
Che ruolo ha o ha avuto la moda nella definizione del tuo punto di vista? La moda mi è sempre piaciuta. Il lato estetico ha per me un ruolo importante. Come l’arte, la moda segue il battito dell’evoluzione sociale dell’essere umano. Non sono mai stato condizionato dalla moda che spesso mi ha coinvolto e mi coinvolge tuttora con collaborazioni per allestimenti e incontri di creatività con alcuni stilisti. Mi piacciono le forme che la moda disegna sul corpo attraverso i vestiti.