“Quando fotografo una casa finisco quasi sempre per andare dove il personaggio che ci abita, ha un gusto preciso, sofisticato elegante…magari anche molto particolare, originale ed eccentrico, ma sempre con un gusto dove il coinvolgimento intellettuale è palpabile; senza questo il sapore della storia non avrebbe peso” (Luca Pioltelli).
New York. Ha fotografato negli anni …. e continua a fotografare, la New York più intellettuale. Ovvero quella che trasmette – attraverso il linguaggio della luce – il suo sapere sull’imprenditoria, sull’arte, la musica, il giornalismo ma potrei continuare… Sono immagini – le sue – che riflettono a volte volti – parlando di ritratto – a volte invece l’involucro, chiamato casa accogliente, rifugio, ritiro o meglio interior dove galleristi di fama mondiale, imprenditori, firme giornalistiche di magazines internazionali, musicisti, artisti … rivivono-trovano-godono di intoccabile privacy, di blindata tranquillità, di sacro ed assoluto silenzio.
Qui – in questi interni – pochissimi “estranei” possono accedere, “bussare” ma soprattutto, nel caso dei fotografi, dettare regole di logistica “scatti” … E quei pochissimi che riescono a farlo, devono avere un dono: una discrezione “ferrea”, “tatto” ed un’innata riservatezza che trovano spazio-accoglienza nell’animo del padrone di casa.
Luca Pioltelli, italo-newyorkese, alla discrezione accompagnata al racconto di una vita – la sua – tra Manhattan e Brooklyn dopo il suo arrivo dall’Italia è abituato. Gli viene naturale, solo come succede ai veri signori: discreti ripeto … mai invadenti… e sempre attenti a non oltrepassare quel limite invalicabile che l’altro chiama: intimità.
Fotografo cresciuto accanto a maestri dell’obbiettivo mondiale come Paolo Roversi, Steven Klein e Fabrizio Ferri e presto trovatosi, dopo il suo trasferimento negli States, in studi fotografici dove i vicini di set erano Richard Avedon, Madonna o la super-model Christy Turlington, oggi Pioltelli racconta visivamente il suo stile fotografico con interiors e ritratti, pubblicati nei più importanti magazines internazionali: tra questi L’Uomo Vogue; AD Germania, Vogue Germania, Casa Vogue, Marie Claire Italia fino al The New York Times.
Per lui hanno posato imprenditori e negli anni, ha fatto sue “fotograficamente parlando”, abitazioni esclusive come per esempio il ritiro ai tropici della stilista Donna Karan o la casa di Olatz Schnabel ex moglie di Julian. Il fotografo oggi vive a Brooklyn, NY, con la moglie Alba e i due figli Alessandro e Adriano. L’ho incontrato questa settimana per Focus On.
I suoi Celebrities Portraits and Celebrities Interiors sono quelli della New York più intellettuale… Quella dei galleristi, giornalisti, o degli imprenditori legati al mondo del cinema (penso per esempio al suo lavoro per André Balazs compagno dell’attrice Uma Thurman, o anche a quello per Olatz Schnabel – ex modella ed ex moglie di Julian Schnabel). Come ha iniziato? Come ho cominciato a fare foto di interni e ritratti? Dobbiamo andare indietro di diversi anni. Direi che tutto risale forse, a quando facevo l’assistente fotografo e mi si chiedeva di andare in giro a fare “location scouting” … un sogno praticamente. Mi davano questa macchina Polaroid (600 SE che, tra l’altro, ho ancora) ingombrante ma relativamente leggera, e tutte le scatole di pellicola che volevo e via … senza limiti, senza troppe restrizioni ed imposizioni. Una volta raggiunta la località dovevo praticamente guardarmi intorno e scattare gli angoli che mi davano una qualche risposta “emotiva” – se posso usare un’espressione così banale. Mi ricordo in particolare un bellissimo Hotel di Venezia, decisamente “fané”, come amava definire Vanni Burkhart, il fotografo che assistevo in Italia prima di trasferirmi a New York. Ma anche San Francisco, dove mi capitò la fortuna di trovarmi di fronte un Golden Bridge seminascosto nella nebbia della baia e, al ritorno in albergo, Fabrizio [Ferri], nel mezzo del fitting con modelle e stylist, commentó con finta, malcelatainvidia, che la foto era molto bella … “ *@! zzo “ disse “ ’..sta foto foto ti é proprio venuta bene porca miseria …”. Poi regalavo le Polaroids 8×10 che scattavo quando preparavo il banco ottico per Roversi o Fabrizio. Ne facevo un paio in giro per lo studio e le modelle e le stylists me le chiedevano sempre. Praticamente da queste esperienze, molto ‘liberatorie’, ma importantissime per la mia formazione professionale, ho capito che per riuscire a scattare qualcosa di interessante, di esteticamente coinvolgente, era fondamentale andare con l’istinto …riuscire ad emanciparsi da tutte le regole che altrimenti possono chiuderti e obbligarti al risultato “consueto “ e noioso . Poi da lí mi sono evoluto e quasi senza neanche volerlo ho cominciato a fare foto di Architettura e di Interni … ma in modo molto naturale. Avevo clienti che mi chiamavano chiedendomi – per esempio – di fotografare la sala dell’Assemblea delle Nazioni Unite, qui a New York, per una pubblicità della Swatch, oppure venivo contattato da importanti riviste di architettura. Quando fotografo una casa finisco quasi sempre per andare dove il personaggio che ci abita ha un gusto preciso, sofisticato elegante…magari anche molto particolare, originale ed eccentrico, ma sempre con un gusto dove il coinvolgimento intellettuale è palpabile; senza questo il sapore della storia non avrebbe peso.
Lei hai lavorato accanto a fotografi quali Fabrizio Ferri, Paolo Roversi e Steven Klein. Che ricordi ha di quegli anni e che cosa – professionalmente parlando – le hanno insegnato? Quegli anni mi hanno insegnato a fregarmene (ride) …no dai…esagero e scherzo … ma quasi, non completamente. Prima di tutto bisogna rendersi conto che per lasciare l’Italia e venire qui da solo con relativamente pochi soldi in tasca e senza conoscere nessuno, bisogna armarsi di un pelo di incoscienza. E qui ci siamo. Poi arriviamo ai “grandi nomi “che passavano da Industria Superstudio, il grande studio aperto da Ferri ai margini del Meat Packing District , una zona allora piena di fascino ed ancora sconosciuta . Quando ci entrai per cercare lavoro e per caso mi trovai di fronte a Richard Avedon che mi salutó con un sorriso, mi resi conto che non potevo permettermi di essere in soggezione …dovevo per forza essere pronto a “giocare la partita “ , anche se mi sembrava che il campo fosse impraticabile. Quindi – una volta consapevole di questo aspetto molto importante – mi buttai nella mischia e cominciai a lavorare quasi subito. Ogni fotografo, ogni stylist, ogni modella, ogni Art Director mi insegnarono qualcosa, naturalmente. Anche la città “questa città “, nel brodo degli anni novanta, quel brodo inacidito dagli eighties che si preparava inconsapevolmente alla rivoluzione internet, mi insegnò molto. C’erano feste sorprendenti con personaggi che sembravano usciti dai film di Wes Anderson , oppure avvenimenti con apparizioni improvvise , come Prince che saltó fuori sul palco di questa discoteca decisamente anonima , in zona Times Square, e alle due del mattino improvvisó un concerto gratuito… Ti sentivi nel mezzo, respiravi New York e la sua eccentricità, i contrasti incredibili ti costringevano ad aprire la visione su tutto …ma era anche facile perdersi e non vedere più la direzione, (New York era , e rimane, una realtà molto dura .) Tornare a lavorare al mattino mi permetteva di staccare concentrandomi su qualcosa di assolutamente più importante: la mia professione. Ogni fotografo aveva il suo stile: con Fabrizio (Ferri) c’era una tensione rilassata, si rideva, si ascoltava musica di Miles Davis e di Pino Daniele …ma al momento dello scatto, silenzio e concentrazione massima…quasi uno stato di trance ipnotica che una volta – mi ricordo – fece persino venire le lacrime agli occhi a Julia Roberts … allora Ferri chiese a tutti di uscire e in cinque minuti fece la foto…un ritratto vero, incredibile… le lacrime erano, come lei ci confessó allibita a fine shooting , una reazione emotiva senza una ragione apparente. Con Paolo Roversi sembrava di giocare, una semplicità tecnica disarmante per uno come me che nel frattempo aveva seguito corsi alla School of Visual Arts e all’International Center of Photography, ma poi le foto ci lasciavano tutti senza parole…un incantesimo. Steven Klein era l’opposto, sembrava di essere in farmacia, tutto pulito ed in ordine, perfettamente organizzato, asettico … finalizzato alla produzione di una immagine moderna, diversa dalle precedenti.
Quali sono invece i tratti che caratterizzano il suo “occhio fotografico”? E nello specifico – parlando di photography interiors e pur parlando di case bellissime – qual è il tocco-segreto per tirar fuori da queste abitazioni – fotograficamente parlando – la loro anima e la personalità di chi ci abita, rispettando nello stesso tempo le esigenze editoriali che le vengono richieste? Non posso parlare di trucchi, anche se volendo ci sarebbero. Il mio approccio si basa molto su quello che ho imparato, durante i primi anni, giocando con la Polaroid. Praticamente prima dello shooting si decide con il Magazine (o con il cliente), una linea editoriale da seguire ma poi faccio il possibile per liberare la mente e fare le cose nel modo più “ingenuo” possibile. Picasso diceva: “ ..ci ho messo 4 anni ad imparare a dipingere come Raffaello ed una vita ad imparare a dipingere come un bambino.. “ …ecco , é un paradosso – e non mi metto assolutamente a livello di Picasso – ma questo statement si applica a tutte le arti creative , sono convinto . Per quello che riguarda le case e le persone che ci abitano, devo dire che all’inizio devo spingermi a superare un certo imbarazzo, mi sento di violare la loro privacy e del resto sono, assolutamente, un voyeur affamato di dettagli ed informazioni visuali-estetiche. Ci metto poco però a rientrare nei ranghi innamorandomi di una scena o di una lama di luce che taglia la stanza d’improvviso. E’ proprio quell’entusiasmo che mi permette di emanciparmi da ogni residuo pudore: il risultato, l’immagine finale, è quello che conta. Ho fatto così – per esempio – per il ritratto di André Balazs per L’Uomo Vogue: l’appartamento situato a Soho, Manhattan, lo stavo fotografando per gli Architetti Enrico Bonetti e Dominic Kozerski , un duo eccezionale che ha progettato , tra l’altro anche il retreat paradisiaco di Donna Karan , nei mari tropicali di Turks and Caicos . Allora, prima ho fotografato la palestra personale trovando un angolo perfetto, molto fotogenico. Quando André é arrivato insieme al suo assistente, Jules, mi ha guardato sospettoso, quasi come dire “ io sono io e questa é casa mia e decido io ….” Non mi sono perso d’animo; mentre la stylist lo vestiva ho fatto vedere la foto a Jules, e l’ho convinto , poi lui ha parlato con André mentre io sistemavo le luci con Bain , il mio assistente, e voilá …André é saltato sul set , convinto , tutto elegante e pronto per lo scatto , il mio primo importantissimo ritratto per L’Uomo Vogue. Il mio entusiasmo per quella foto precedente in quell’angolo angusto di palestra aveva funzionato.
E’ un periodo di grandi cambiamenti nella moda, editoria e fotografia, dovuti anche all’arrivo di una tecnologia sempre più sofisticata. Come si vive a New York che comunque è una città già molto veloce di suo, questo passaggio? Ci sono senz’altro dei grandi cambiamenti tecnologici che hanno portato, tra l’altro, ad una rivoluzione dei mezzi di comunicazione con la crescita esponenziale dei social e la fine ineluttabile delle riviste cartacee. Ma a parte la tecnologia, non vedo ancora questo grande cambiamento di stile, sia nella moda che nella fotografia. Anzi …mi sembra che siamo quasi spaventati dall’intraprendere il salto che ci porterà nel cuore del ventunesimo secolo. Guardiamo anche quello che é successo qui in US: otto tragici anni di Bush, un pezzo di modernità con Obama … poi il baratro indietro con l’inettitudine semi-dittatoriale di Trump. Forse saranno proprio questi ultimi giovani, nelle piazze a gridare l’opposizione alle oscene lobbies delle armi, che entrando nella vita adulta daranno quella svolta culturale fortissima che abbiamo avuto per esempio negli anni venti, nei cinquanta, nei settanta e negli ottanta … E New York corre naturalmente, corre davanti a tutti ma certe volte senza pensare, mettendo sempre più spesso il profitto al primo posto dei valori con un impoverimento culturale artistico evidente. Ma ci sono speranze, con quei giovani di cui ho parlato.
Lei vive e lavora da tantissimi anni negli States, ora vive a Brooklyn con sua moglie e i suoi figli (i ragazzi sono nati e cresciuti a New York). Perché secondo lei tanti fotografi italiani non rimangono in Italia ma “emigrano” tra Parigi, New York, Londra e Los Angeles? Com’è vissuta e che peso viene dato alla fotografia in Italia? Si va via dall’Italia perché stiamo pagando il prezzo del Berlusconismo esagerato che ancora pervade la società, basta guardare la pochezza della televisione. Mi riferisco ad un fatto culturale, naturalmente. Ma anche qui ci sono speranze. La nostra passione, il gusto, la manualità, il nostro artigianato raffinato, sono ancora presenti e basta crederci per rifiorire, culturalmente e perché no, anche economicamente.
Oggi con i cellulari tutti sono un po’ degli aspiranti fotografi. Qual è però professionalmente parlando, il percorso che lei consiglia ad un ventenne di oggi per lavorare in questo settore? E’ vero, tantissimi vengono da me per farmi vedere le foto sul cellulare: si sentono pronti, i “ likes “ gli danno coraggio . Solo che non è proprio così semplice. Lo sappiamo che una cosa é fare una foto a quest’angolo stupendo mentre passandoci vicino il sole lo illumina da dietro, un’altra é arrivare “on location “ in una grigia giornata d’inverno e produrre comunque e sempre, una serie di foto di qualità elevata da presentare al cliente il prima possibile , anche se a dirla tutta , quell’interno non é così fotogenico e porca miseria c’é il camion davanti che mi rovina tutto ecc. ecc. Comunque telefonino a parte, quello che conta é trovare e perseguire uno stile personale ed unico; trovare quello stile diventa fondamentale negli anni che precedono “l’entrata nel business “. Fotografate tutto – magari non i cani ed i gatti – che io amo , per carità , ma… continuate a fare esperimenti . Spingetevi verso nuovi territori e cercate di non scattare quello che é già stato scattato (lo so che non é facile …) . Poi fate vedere le vostre foto e ascoltate le critiche ed i giudizi solo delle persone che stimate e che vi stimano… alla fine sarete voi gli unici in grado di giudicare le vostre immagini ed i vostri editing. Cercate un bravo fotografo e chiedete di assisterlo. Non lavorate MAI gratis.
Quali sono i tuoi prossimi progetti? I miei progetti sono tanti lavori, per lo più commerciali, per Architetti, Designers ed anche Developers che stanno costruendo nuove soluzioni urbane qui intorno ma anche sul Jersey Shore e negli Hamptons , la meta estiva e glamorous dell’upper class newyorkese. Ho anche nel cassetto un’idea che mi tormenta …forse non lo farò mai …mah ?….Ve lo dico la prossima volta , ok ?