Più ancora della gambe c’è la testa. Che cosa spinge davvero una persona ad alzarsi all’alba per correre anche solo pochi kilometri prima di andare al lavoro? Passione, voglia o necessità di sfogare lo stress, mantenersi in linea, farlo perché fa stare bene, senza un valido motivo apparente che lo giustifichi.
Io ho iniziato a correre dopo la rottura di una storia durata 9 anni, ero talmente arrabbiata con me stessa che la proposta di fare la staffetta a favore della Fondazione PUPI alla Milano City Marathon è arrivata al momento giusto. 10 kilometri, 11 e mezzo per essere precisi come si sono rivelati poi alla fine. Una distanza troppo lontana che mai avrei pensato di riuscire a fare. Ora con la mente bacata da maratoneta i 10 kilometri li faccio per scaldarmi o per allenarmi con gli amici oppure durante le vacanze estive. Perché si il runner vero non va mai in vacanza neanche ad agosto.
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Nei giorni di pausa estiva, si è liberi di correre come e quanto ci pare senza dipendere dall’orologio che segna il tempo che manca all’ingresso in ufficio.
La libertà di scegliere dove andare, quanto correre con la testa completamente libera da tutto, la possibilità di perdersi e di stare in giro per tutto il tempo necessario che ci rende felici.
Il rito della preparazione pre-corsa fatto con calma con un ritmo irreale, modalità rallentatore, quasi a voler scacciare i ritmi frenetici a cui diamo sottoposti durante l’anno quando anche solo due minuti in più sulla tabella di marcia, fanno la differenza.
Il mio concetto di vacanza è sempre stato quello di viaggiare senza meta o meglio si, avere almeno una meta e poi improvvisare in loco.
Staccare completamente la spina con tutto e tutti, no routine, sveglia in modalità OFF, nessun programmi, almeno non quelli imposti che ti mettono ansia, perché se ritardi di qualche minuto sono noiose discussioni da affrontare. Scegliere le giuste persone con cui condividere le vacanze, se no, meglio soli. I miei viaggi in solitaria sono stati i migliori e ho conosciuto un sacco di amici con i quali a tutt’oggi sono ancora in contatto. Insomma godersela e non fare niente.
Da quando sono una runner, meglio una che corre maratone, tutto è cambiato.
O meglio, ho modificato la mia idea e i miei standard di vacanza in funzione della corsa, cosi come del resto fanno migliaia di altre persone che condividono la mia stessa passione.
Nessun obbligo, nemmeno quando sono nel pieno della preparazione di una maratona autunnale.
E’ una cosa che faccio con piacere perché correre alla fine è una delle poche cose mi fa stare bene e ovunque vado per lavoro o per vacanza, nella mia valigia c’è sempre un posticino per le scarpe e l’abbigliamento da corsa.
Se poi è previsto l’imbarco della valigia, allora le scarpe le tengo nello zaino o nella borsa a mano, mica che mi capita come quella volta alle Canarie che tra cambi di aereo, connessioni, sali, scendi vari io sono atterrata a Tenerife, la mia valigia non si sa come a Barcellona.
Il nastro vuoto che gira, gli altri viaggiatori felici con le loro valige e io li in attesa con il gruppo di amici nella speranza di vedere arrivare le nostre, chissà forse le avevano imbarcate tutte insieme, la speranza è l’ultima a morire. Alla fine ci siamo arresi. In effetti, si le avevano imbarcate tutte quante insieme ma su un aereo diverso dal nostro. Da lì il pandemonio.
Gli amici disperati e preoccupati per i bei vestiti firmati, la biancheria intima, il beauty case, lo spazzolino da denti, come faremo a cambiarsi, a lavarci dovremo comprare tutto nuovo.
Io disperata e in panico si, ma…. per le mie scarpe da corsa. Come avrei potuto ispezionare l’isola senza la mia corsetta quotidiana? Ne comprai un paio la mattina successiva non appena aprirono i negozi, non importava il modello o il colore, quella mattina avevo deciso che avrei dovuto correre 10 kilometri e così ho fatto, e si comprai anche uno spazzolino da denti più per l’appartenenza al gruppo che per effettiva necessità. Le valige arrivarono la sera stessa, ma io continuai a correre con le mie scarpe nuove di zecca.
Peggio mi è andata all’isola di Wight. Posto carino, nulla da dire, ma uno di quei posti che non si capisce come mai, o meglio si lo so ma meglio non indagare, sono ancora rimasti ancora agli anni ’70, niente a che vedere con la mia amatissima Inghilterra, un pezzo totalmente a se stante, sia dal punto di vista organizzativo che politico.
Quella volta, la mia valigia arrivò dopo ben 6 giorni in quel posto sperduto nel mezzo della Manica tra Inghilterra e Francia, la mia vacanza durava in tutto dieci giorni.
Al terzo giorno senza correre e soprattutto senza sapere dove fossero e quando mi sarebbero state restituite le mie scarpe da corsa, cominciavo a scalpitare, colpa forse anche dell’ astinenza da endorfine, se non che grazie a google sono riuscita a trovare l’unico negozio di articoli sportivi su tutta l’Isola che vendeva casualmente la mia marca preferita di scarpe, del mio modello e avevano anche il mio numero, cosa peraltro non così scontata.
Credo di aver baciato l’ingresso di quel posto come fa il Papa quando arriva in terra straniera, il commesso divenne il mio miglior amico e io iniziai ad amare follemente l’isola di Wight in ogni suo angolo.
Sono fermamente convinta che per conoscere veramente un posto e apprezzarne la bellezza, bisogna percorrerlo a piedi, questo l’ho sempre fatto anche prima di diventare una runner, ora anche meglio, con la corsa ti spingi in posti e in angoli che mai avresti pensato di visitare.
Quando corri sei solo con te stesso e non hai piani o mappe da seguire, vai e segui le tue gambe portate dalla tua curiosità.
A New York, Valencia, Londra, Edimburgo ci ho corso la maratona e anche a Milano e sì ho visto posti che mai avrei pensato di visitare anche nella mia amata città in cui vivo da oltre venti anni ormai e sfido chiunque a saperne più di noi runner compulsivi corsa dipendenti anche nel mese di agosto.