È una vita che senti parlare del Muro di Sormano e finalmente realizzi che ci sei sopra e hai appena valicato il primo metro durissimo di dislivello: da 827 a 828.
Vita… innanzitutto chiariamo che parlo di “vita ciclistica“, quindi, nel mio caso, neppure due anni. Però è così tanta la fama di questa strettissima stradina ciclabile che accorcia vertiginosamente il tragitto verso la Colma di Sormano che ho la netta senzazione che nella mia giovane esistenza di ciclista ci sia un “prima” e un “dopo” il Muro di Sormano.
E se il Ghisallo rappresenta una sorta di Mecca che il ciclista devoto alle due ruote deve raggiungere almeno una volta nella vita, anche se è giapponese e costi quel che costi, il Muro di Sormano sa tanto di rito iniziatico riservato però a gente che ha davvero tanta energia nelle gambe. Un rito d’élite.
Sì perché come dice Francesco, il mio compagno in questa avventura, istruttore di spinning e ciclista amatore di lungo e solido corso, il Muro di Sormano non è alla portata di tutti. E qui allora sta il brivido della cosa, l’idea che mi ha affascinata per mesi, il dubbio che un po’ mi rodeva: sarò tra chi ce la fa o tra chi non ce la fa?
Ma facciamo un passo indietro. Il mito del Muro in me è germogliato la prima volta forse un anno e mezzo fa. Quando mi ero imbattuta nel post di un “puro folle”, Max Bigandrews, che, alla ricerca del Graal di un ciclismo estremo ma ludico, raccontava il suo “Giro del Demonio”, ovvero una scorribanda brianzola tra pendenze estreme e discese ardite. Tra le “risalite” naturalmente c’era anche il Muro e così, visto che poi non mi ero iscritta all’indemoniata corsa che mi avrebbe vista certamente soccombere, avevo avuto in regalo il berretto solo perché ne avevo scritto in un mio articolo.
Ricordo che Max era riluttante nel regalarmi ciò che per tutti rappresenta una sorta di distintivo d’onore: è solo chi fa il Giro del Demonio che avrebbe diritto ad indossare il mitico cappellino… ma un po’ di honoris causa si vede me l’ero guadagnata con la tastiera prima che con le gambe.
Oggi invece ho finalmente diritto pieno… perché il Muro l’ho fatto! E anche se Max rilancia con la sfida a fare la Conca di Crezzo (chissà di che si tratta…) per avere così il totale patentino di indemoniata della bici, di cui il cappellino intero è l’emblema, per ora mi accontento, come dice lui, di possedere i pieni diritti per la sola visiera. È già comunque una bella conferma.
Già… una conferma che sembrava destinata a continui riinvii. Come se l’idea in sè del Muro non fosse più che complicata da realizzare, si aggiungevano tante ulteriori problematiche. Con chi farlo? Non tutti sono in grado e trovare chi ne ha voglia non è certo facile. Quando? A primavera con rischio pioggia? Quando fa troppo caldo o troppo freddo? Insomma anche il fattore clima incideva. Inoltre la distanza. Bene o male tra l’andare e il tornare da casa mia in purezza sono 130 km. Quindi da mettere in conto anche le gambe per il ritorno “post trauma” della salita estrema.
Difficile dunque individuare la perfetta congiunzione astrale. E dire che sulla Colma c’è proprio un osservatorio per scrutare la volta celeste.
Sembrava quasi che anche questa stagione fosse destinata a passare senza Muro quando tutto è cambiato con l’incontro in Velodromo Parco Nord con Francesco, che mi propone così, dall’oggi al domani, di fare il Cornizzolo. Altra durissima salita brianzola. Lunga. Quasi 7 km senza scampo, con pendenza media superiore al 9% e punte verso il 20%. Una vista bellissima che ripaga dello sforzo e delle punture di tafano che inevitabilmente bombardano senza pietà nel passaggio tra le mucche. Però vuoi mettere vedere la partenza dei parapendii e la birra con gazosa nel rifugio in cima? Priceless.
Così, con la spunta fatta alla voce Cornizzolo, eccomi a proporre a Francesco di fare il Muro. Il Muro dei sogni o degli incubi. Il Muro che si immagina di farlo metro dopo metro, studiando le mappe, le altimetrie su Grimpeur.it, le schermate di GoogleMaps. E ci si pensa leggeri come Romain Bardet al Lombardia l’anno scorso. Agile e gracile svolazzerà sull’impervia salita con la grazia di un passero. In poco più di 8 minuti.
Il Muro che neppure i Pink Floyd possono scalfire, il Muro che nelle Fiandre se lo scordano così duro, il Muro che è anche stato il mio primo tema di italiano al ginnasio, in tempi in cui iniziava a scricchiolare quello di Berlino, e credo di ricordare mi valse un bell’8. Ecco. Così dovrà essere il mio Muro di Sormano. E non mi spaventa il monito di chi teme il countdown dipinto sull’asfalto metro dopo metro. So già che quei numeri così razionali, da cui molti si sentono inibiti, mi aiuteranno invece a gestire le forze. Eh sì perchè il ciclismo mica è sport per impulsivi. C’è da tenere lì la testa. Tra riflessi, coordinazione, equilibrio, gestione dei muscoli e del movimento, fiato e cuore, si può dire che il cervello ne abbia di carne al fuoco. In più, come dice Francesco, c’è la determinazione che è fondamentale. E il Muro ti aspetta proprio lì, sulla soglia del tuo limite della tua personale determinazione. Ad ogni colpo di pedale infatti interi branchi di sirene, stipate come sardine ai lati della stradina, venivano a cantarmi le loro nenie disfattiste. Tuttavia ho retto alla pressione. E mentre salivo, metro dopo metro, pensavo: devo ricordarmi quello che sto provando. Devo ricordarmi quello che vedo. Una coppia di anziani forse in cerca di funghi, un asinello che ruzzola nell’erba in cerca di frescura. Mi trovo al punto dove “spiana” al 14%. Sull’asfalto ci sono dei disegni bellissimi, molto grafici. Sembrano dei piccoli alberi. Il bello è che nel ricordo quel punto mi sembra di rivederlo in discesa. Mentre invece era solo una tregua dal 17-18% che bellamente continuava a guardarmi per l’80% della salita dallo schermo del Garmin.
Alla partenza avevo scrutato l’orario. Le 11.05. Convinta che durante l’ascesa me ne sarei ricordata. Ma figuriamoci. In men che 20 metri già faticavo a ricordarmi che anno fosse… Per fortuna non ero ripiombata negli anni ’60, perché allora con certi rapporti e con la bici d’acciaio il Muro sarebbe stato più facile abbatterlo piuttosto che scalarlo.
Il mosaico dei numeri sul Garmin però sono una bella e confortevole compagnia. Si accoppiano amabilmente con i metri di quota disegnati sull’asfalto e con le performance record dei ciclisti del passato. Anche se su quello schermo ovunque guardi c’è da terrorizzarsi. Oltre alla già famigerata pendenza c’è solo l’imbarazzo della scelta nell’esplorazione dei valori più bizzarri. Il cuore ad esempio, che nel mio caso può arrivare a raggiungere i 180 bpm e però va tutto quasi-bene, dipende dalla piccola dimensione, mi dico per rassicurarmi. Poi c’è la velocità. Ma fino a che lentezza si può arrivare rimanendo in piedi senza rischiare il surplace? Nei punti più veloci mi vedo a 6 km/h. La cadenza manco viene registrata. Tutto è così deformato dalla lente dello sforzo estremo che a un certo punto vedo un 57% e quasi credo sia la pendenza… macché, tranquilla, è il livello della batteria.
Giunta al metro 990 ecco però l’insidia a cui non pensavo. La bici s’impenna! Proprio così, mi rendo conto che la ruota davanti non tocca e per di più il manubrio, senza più resistenza con l’asfalto, mi si piega a destra. Giuro che non ricordo come ho fatto a rimanere in piedi. Miracolo della fisica. E però uno spiacevole senso di vertigine s’insinua nella testa, tanto da aggiungere un pizzico in più di istinto per la sopravvivenza che di solito mette le ali. Sono a pochi metri dai tornanti di cui si narra la durezza. Carlo, ciclista di passaggio con cui avevamo condiviso, insieme all’amico, un tratto da Giussano a Canzo, lo aveva detto. Quando arrivi ai due tornanti è durissima. E già sei fermo prima di arrivarci.
Effettivamente non ci si può credere. Ormai credo che il suono del mio fiato sia udibile fino alla Madonna del Ghisallo. Incrocio un famigliola in discesa. Nessuno osa dirmi nulla, nemmeno un ciao o un addio, ma per fortuna fanno largo e i bambinetti stanno fermi. Non avrei sopportato un cm di invasione nella mia traiettoria. Incrocio anche un ciclista in mtb in discesa. Che mi incoraggia alla grande. Vai che c’è l’ultimo tornante, respira, pian piano, vai che sei arrivata! Mi sento molto maleducata, ma ho appena la forza per fare sì con la testa, senza parole.
Così l’ultimo tornante arriva e con lui è in agguato l’ultimo colpo di coda. Prima di tutto la delusione di non vedere ancora la sbarra della fine. C’è una lieve curva che ne impedisce la vista. E poi mi cade l’occhio su una scritta dipinta per terra. La citazione di qualcuno che dice qualcosa come: l’ultimo strappo è atroce, la bici s’impenna… Come? Ancora rischio impennata? Nooooo. Quando mai mi sono messa a leggere. Ma così è. La ruota anteriore di nuovo perde aderenza. Panico. È però più breve della prima volta. Che stia imparando a fare le penne come i tamarri del freestyle? Avrei fatto a meno, ma dopo l’ultima paura ecco il premio: la sbarra finale. Metro dopo metro eccola avvicinarsi fino a che ci sbatto contro e rimango lì, incredula. Ansimante da sputare un polmone intero. E… divertita, felice. Ce l’ho fatta! Il Muro tutto d’un fiato, senza mai mettere giù il piede. Mi raggiunge alla sbarra Francesco che nel frattempo era salito al bar ed esclama: “Però… non me lo ricordavo così tosto!”. Inutile dire che sogno già di poter dire anch’io questa frase, magari a qualcuno che farà con me il Muro per la prima volta. Il primo Muro, a quanto pare… si scorda sempre!
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