È passato un anno dalla mia prima granfondo, targata Milano, ed eccomi alle prese con un nuovo debutto: la mia prima squalifica. Oddìo cosa avrà mai combinato la Laura Magni per guadagnarsi cotanta eclatante esclusione dalla classifica ufficiale?
Avrà scambiato il pettorale con Nibali, che tanto la tappa nella Vuelta sarebbe stata nel pomeriggio? Sarà stata beccata a divorare un panino al salame di cui sono noti i prorompenti effetti dopanti? Peggio ancora potrebbe aver toccato il freno anteriore di qualcuno nella discesa da Colle Brianza…
Peggio, molto peggio. Ha pedalato più degli altri. Quasi un km in più.
Ma perché… Ha forse sbagliato strada? No-no, la strada l’ha forse sbagliata qualcun altro.
Facciamo però un passo indietro. Perché sì, la squalifica c’è, ma A) non mi sono ancora arresa, B) non mi sono mai curata delle classifiche delle granfondo anche perché senza un gregario, o un gruppo di sostegno, una donna, almeno una come me che non è certo una ex pro, e pedala allegramente ogni volta che può tra casa e ufficio con qualche salto domenicale sempre più frequente in Brianza, insomma, una categoria W2 che in gara trova ultracinquantenni che le danno la biada, non ha mai potuto ambire a nulla più che portare a termine la missione di congiugere due punti: partenza e arrivo.
In mezzo c’è tutto il divertimento del vedere tanti personaggi. Quelli che ci credono e volano subito davanti in gruppo tutti bardati con la tutina uguale. Quelli che indossano la maglia ufficiale trovata nel pacco gara della granfondo perché è sempre la maglia nuova la più bella. Quelli che fanno da cavalier servente alla loro dama. Quelli che, ginocchia larghe al vento, arrancano muovendo grossi sederi da sempre a disagio sul sellino, ma che ci vuoi fare, amano così tanto la bici che chissenefrega dell’estetica e dell’aerodinamica.
E poi c’è la passione. Perché in fondo ci credo anch’io e la granfondo in sé è proprio una bella botta di adrenalina. Così forte che scavalcando “El Punt de la Breda climb”, sintomatico segmento di Strava che mi porta dal Parco Nord al Carroponte, luogo dello start, mi scattano le gambe da sole e prendo subito un Qom. Di quelli più belli, a pari merito della precedente reginetta. È sempre brutto infatti strappare la corona a qualcuna. Meglio condividerla. E rimanere con un po’ di appetito per una prossima volta.
Così quest’anno si parte in tromba e fatti pochi metri dal gonfiabile della partenza butto un occhio al Garmin – che lusso, questa volta ce l’ho – e vedo già che sono sui 35 km/h. E sale ancora. Eccomi ai 40… e di più ancora… raggiungo i 43 km/h. Mi tornano così in mente le parole di Sebastian K, ciclista e grande esperto di vela. Quando corri in un grosso gruppo sei come risucchiato, sospinto dal turbine che ti avvolge e ti rapisce. Mi immagino in una nuvola d’oro. Anzi no, meglio rosa. Color Giro d’Italia. E sento che le mie gambe frullano con poco sforzo. Sono già passati alcuni km e vedo ancora la testa del gruppo che si alza ai cavalcavia. Tutta colorata nel sole della mattina la carovana sembra un grosso drago cinese. Sento che il mio passo coincide con quello degli altri, che pedalo all’unisono e, facendo un rapido confronto con l’anno scorso, non posso che ammirare da un po’ più in alto ciò che ero.
Ma devo preservare le forze. Sì perché, appunto, quest’anno l’asticella è un po’ più alta. Vorrei riuscire a fare il lungo, ovvero la versione vera e propria della granfondo, senza sconti e riduzioni. E lo vorrei fare perché, a metà agosto, dopo aver abbattuto il Muro di Sormano (vedi articolo) mi attira molto la salita “che farà selezione” e “dove non sarà possibile nascondersi”. Così recita la descrizione sul sito della Granfondo Milano. “Una salita con pendenze a doppia cifra”, conclude minaccioso il bugiardino online. Bene. Questo mi convince ancor di più ad assaggiarla, questa salita, come se me l’avesse prescritta il medico.
Quindi mi lascio superare da Andrea, che frequenta il Velodromo Parco Nord e con cui faccio un selfie dalle parti di Monticello, e già da un bel po’ ho fatto ciao ciao a Fulvio e Lorenzo di Equilibrio Urbano. Devo preservare le forze per la fantomatica salita a doppia cifra. Tuttavia mantengo elevato il ritmo perché nel regolamento ufficiale della corsa è segnato, inequivocabile, l’orario in cui si chiuderà il cancello che potrà finalmente proiettarmi sulla vetta del GPM: le 10.30. A tre ore esatte dalla partenza. Posso farcela.
Alla prima salita di Colle Brianza mi pare di volare, come se avessi ancora lo slancio della partenza nel turbine del gruppo. Lo vedrò poi su Strava: tanti secondi avrò dato alla me stessa del mio primo (ed unico) passaggio al Colle dello scorso Aprile. Così scendendo inizio a scrutare ogni svincolo con l’ansia di chi si aspetta di trovare la pentola d’oro sotto all’arcobaleno. Devo stare attenta ai segnali, non posso sbagliare. Ecco quindi che improvviso si palesa un cartello con due frecce e l’avviso tanto atteso: mancano 300 mt allo svincolo per il lungo. Ci siamo. E sono in anticipo sulla chiusura del cancello di quasi un’oretta, mica male. Alla vista dell’addetto in pettorina gialla rallento e chiedo: “scusi è qui vero il lungo?” E lui rapido facendomi un gesto largo come se volesse far volare via un piccione: “Avanti! Avanti!“. Okkey… ma che strano, non sono già passati 300 mt? Dopo un po’ che sono sullo stradone che spiana e inizia a materializzarsi in me un grosso punto di domanda, ecco che mi affianca un corridore e… “Ma tu non volevi fare il lungo?” mi fa. Ed io sgrano gli occhi. “Ma guarda che qui ti registrano per il medio, ti hanno mandata sul medio“. Quasi come se quel “medio” fosse un bel dito alzato rivolto a smorzare il mio entusiasmo, inchiodo e… “Grazie grazie!” urlo al bravo delatore e dietro-front, sono già alla risalita per ritrovare la fatidica svolta.
Ora che ci penso, come in un flash, rivedo la scena di una signora con la pettorina gialla che, tutta frettolosa, stringeva a sé un cartello. Lo stringeva come se fosse stato un agnellino da salvare da un branco di lupi affamati. Ed in effetti al pensiero dell’inganno mi si allungano proprio i canini. Così piombo sull’addetto che prima mi aveva dato l’impressione del gendarme che allontana la folla ottusa dalla scena del delitto, via di qui non c’è niente da vedere, e con una risata gli dico: “ehi ma lei prima mi ha detto una bugia… ahi ahi…“. Ma nulla vale il tono bonario da Mike Bongiorno. Il tipo mi dice brusco: “Non si può, il Direttore di Gara ha deciso di chiuderlo“. “Ma come… io sono in tempo per passare… quanto tempo fa lo ha detto?” “Adesso, da 5 minuti“. “Ma scusi, il regolamento dice un altro orario, io sono sicura di essere nei tempi. Vede questa maglia? Sono campionessa dei giornalisti italiani, io mi sono iscritta con l’obiettivo di fare e poi raccontare in un articolo questa durissima salita… non posso non salire!“. E in quel “non posso” mi accorgo che c’è dentro tutta la fatica e la volontà di farcela, di provarci a tutti i costi e che non posso certo soffocarla, perché è questa la vera anima dello sport. Crederci e provarci. “Ma guardi Signora che la salita è molto dura…“. E ci mancava solo che aggiungesse un “lasci perdere“… Detto o non detto non poteva esserci, per me, incentivo più forte. Non ce la faranno a fermarmi. Ci voglio provare. È durissima? Meglio.
Sono già a impegnare il primo tratto che è con l’asfalto grattato per lavori in corso, ancora qualche casa che s’inerpica e poi, improvvisamente, mi trovo sui tornanti con un buon ritmo. Certo il fiato e il cuore vanno a mille e ripenso a quanto tempo ho perso a ri-pedalare per tornare indietro e a quanto fiato ho sprecato nel discutere con l’addetto.
Sono sola. Completamente sola. Davanti non si vede nessuno, probabilmente ho già 10 minuti dall’ultimo che è passato e quindi verosimilmente potrei rivederlo solo se gli venisse un infarto… Meglio restare sola! Ben presto però si materializza un ragazzo. Non ha il pettorale, non sembra un ciclista classico, ma sconfina con l’urban rider. Fa un po’ di zig zag con il rapportone e iniziamo a chiacchierare, nei limiti del mio debito d’ossigeno. Non ha una goccia di sudore, non sembra per nulla affaticato, come se arrivasse da un “altrove” immateriale e non meglio precisabile. Non ricordo cosa ci siamo detti. Era leggerissimo e la sua immagine nella memoria assume contorni un po’ mistici, diciamo pure angelici. Miracolosamente infatti l’angelo-rider mi regala una perfetta serenità. Dimentico la discussione con l’addetto che mi aveva portato sulla salita con le pulsazioni un po’ alte. Dimentico la solitudine che in una gara fa sempre un po’ di paura, specie sapendo che ti sei condannato all’ultimo posto. Sì, ma un ultimo posto molto onorevole. Quello di chi non si arrende.
Improvvisamente così come era apparso il ragazzo sparisce dopo un paio di tornanti ed io però sono ormai rinfrancata e ho ritrovato il mio passo. Lento, ma sicuro. E la salita s’impenna. Raggiungo un tipo in mtb. In quella curva fresca e boscosa il Garmin dichiara a tratti il 20%. Mi armo di coraggio e lo supero. I miei rapporti da corsa sono più veloci, non posso stargli dietro facendo il suo stesso zig zag.
Ancora pochi metri ed è fatta. Credo. C’è una fontanella ed un gruppetto di ciclisti in gita che mi incoraggia. Non mi fermo, devo stare nei tempi della gara anche se ormai l’acqua della mia borraccia ha la temperatura della panada della sciura Rachele alla Randonnée dei Navigli. Resistere. Ogni secondo è prezioso. E mancano ancora due salite: Ello e il bis di Colle Brianza, poi ci si ricongiunge all’itinerario di tutti.
Con sollievo passo il controllo del chip. Suona normalmente e l’addetto mi fa ok. Bene! Sono dentro, non avevano già levato le tende. E così lungo il tragitto tutti i volontari, tanti, ben piazzati e quest’anno davvero molto attenti, sembrano lì per me. Li ringrazio e li saluto tutti. Che bravi. Uno di loro mi batte le mani appena inizia la salita di Ello e al ristoro sono gentilissimi. Chiedo se la macchina di fine corsa è già passata. No, non ancora. Bene. Adesso tanto è una volata fino a casa. Dopo il doppio Colle Brianza che a tratti sembra uguale al primo e a tratti pare diverso (in Brianza è così, vivi nella dimensione irreale del déjà vu) sono come spinta da ruote animate di vita propria. Ah ecco… la Laura Magni è stata squalificata perché aveva il motorino nascosto nella ruota! No-no, motivo diverso. Ma intanto io, ignara, correvo con la felicità di chi sente l’elettricità dell’arrivo che si avvicina.
E correndo mi raggiunge anche la macchina di fine corsa, che sta scortando un ragazzo allegro e simpatico che credo abbia qualche problema di udito e che non senza sforzo mi racconta nell’avvincente lingua di chi non ha mai udito la voce umana del suo mal di gambe. Nonostante ciò correva come una lippa e allora, dopo essermi sbobinata praticamente tutta la corsa in solitaria, fendendo il vento con il mio naso che non è certo aerodinamico come quello di Coppi, decido di concedermi un po’ di riposo e mi attacco alla sua ruota. Del resto mancano circa 8 km, me lo sono meritato.
Ed è così commovente il finale… io e il mio misterioso cavaliere, pettorale nr 625, ci lanciamo uno sguardo d’intesa e ci prendiamo la mano, alzando all’unisono le braccia al cielo nel mentre si sfreccia sotto al gonfiabile. Poco dietro di noi la macchina di fine corsa, fiammante come la carrozza di una fiaba.
Lieto fine? Eh no… perché il signore gentile dell’organizzazione, che avevo incontrato anche al ritiro del pettorale, mi avverte. “Peccato la squalifica… era anche arrivata seconda di categoria…” Squalifica? Sì. E perché? Perché il cancello per il lungo era stato chiuso con circa un’ora di anticipo rispetto a quanto scritto nel Regolamento di Gara. E perché? Per motivi di sicurezza. Ohibò, che ne fossi io la causa? A quanto pare sono un pericolo pubblico. Chiudete il cancello, sta per passare la Laura Magni, si salvi chi può! Può nuocere alla gara!
Per fortuna che c’è Strava (e c’è anche ENDU) e la mia gara è scolpita nella memoria informatica dettata dai satelliti. Una vittoria stellare. E questa squalifica, guadagnata con lo spirito di chi crede nello sport, sembra già brillare più luminosa di una medaglia.
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