Il primo “scoop” è proprio lì ad attendermi dietro la porta d’ingresso dell’azienda De Rosa e ha le fattezze di un signore con i capelli bianchi, in compagnia di due ospiti, alla scrivania dello showroom. Non oso immaginare, ma la realtà supera la fantasia. È lui, Ugo De Rosa, il fondatore, il meccanico di Eddy Merckx. Lo rivela con semplicità quando mi presento e gli chiedo del figlio Cristiano, oggi amministratore dell’azienda, con il quale ho un appuntamento.
Il secondo “scoop” precede il primo di una settimana. La scena? Il Velodromo Parco Nord dateciPista. Pedalavo sulla variante in salita in compagnia di Tanja, un’amica che non teme le nostre velocità centrifughe e ogni tanto fa una capatina dalle nostre parti, ed ecco che mi si affianca un ciclista con una bella De Rosa di quelle tutte logate in uno stile che ricorda i graffiti di Keith Haring. “Scusi se la disturbo, Lei è Laura Magni?” “Sì sono io… ciao!” Mi affretto a rispondere con un entusiastico “tu” per spostare subito il dialogo su un piano di pratica accessibilità. “E tu chi sei?” “Mi chiamo Cristiano De Rosa e volevo proprio ringraziarti per quello che fate qui in velodromo…”
Ecco. Questo il preambolo che anticipa e motiva il mio dito che suona al campanello della De Rosa nella sua storica sede centrale e produttiva aperta nel 1985 a Cusano Milanino. Da quando cioè a Milano, dove l’azienda nacque nel vivace dopoguerra del ’53, non c’erano più spazi sufficienti per supportare la crescente domanda di biciclette siglate De Rosa.
In questi due semplici episodi c’è già tutta l’essenza di una famiglia che ha fatto dell’understatement la sua cifra. Da sempre. Così come quelle tipiche famiglie milanesi, sobrie e operose, che mai urlano. Sussurrano. Così come si faceva a casa dei miei nonni paterni. E nel sussurro c’è tutta la forza e la convinzione di chi sa bene chi è e dove sta andando.
Entro quindi in una factory che sembra il regno della gentilezza. Tutti sorridono, dagli uffici alle linee produttive, perché, proprio come recita il marchio De Rosa, con il suo cuore rosso, qui le bici sono veramente fatte con amore.
Ma bando alle chiacchiere, lasciamo parlare l’officina. Già i tavoli, con la struttura in ferro dipinto d’azzurro e ripiani in legno invasi da utensili dalle mille fogge e funzioni, rivelano l’anima autentica di questo luogo. “Qui se si vuole è possibile vedere nascere la propria bicicletta” mi spiega Cristiano. “Del resto l’affezione che si può provare per una bicicletta che senti tua, perché la facciamo sulle tue misure esatte, porta anche a considerarla viva. Io a volte gli parlo…”
Qui infatti si parla alle biciclette, ma non si parla mai di taglie Small, Medium e Large. “Al massimo così mi compro le mutande…” dice Cristiano. E in un attimo mi ritrovo a indossare una maschera da saldatore, che però è tutta computerizzata – mica bubbole – per godermi lo spettacolo dello specialista Alessio che salda i forcellini di un telaio imbottito di gas inerte realizzato in titanio, oggi giustamente considerato “ingrediente” da veri intenditori. È infatti solo Stefano “il nero”, esponente autorevole del Makako Team nonché espertissimo ciclista da una vita, che nel mio giro talvolta sfoggia una bici in titanio. E fu De Rosa il primo telaio in titanio che debuttò con tante vittorie e podi al Giro d’Italia e nelle grandi classiche nei primi anni ’90. A riprova che sono certe scelte in fatto di geometrie e studio dei materiali che possono fare la differenza.
Oggi il telaio in titanio De Rosa pesa solo 1.200 gr, una piuma che sorreggo senza sforzo mentre converso con Cristiano, soffermandomi su suo suggerimento sulle saldature che paiono arabescate ed estetiche nemmeno fossero coltelli pattadesi. Perché non può esserci vera e totale performance senza bellezza.
Così come non può esserci crescita senza continuità. Forse in tanti questo concetto semplice lo hanno dimenticato. E l’idea dello scontro generazionale, del conflitto per superare il maestro, si è così radicata nella cultura contemporanea che il “di padre in figlio” sembra oggi rivoluzionario.
“Cristiano, ma che fortuna che avete. Respiri fin da piccolo l’aria del ciclismo e te ne appassioni al punto da rilanciare la visione di tuo padre in una mission aziendale attuale…” e mentre dico e penso tutto ciò, vedo progressivamente convergere tutte le generazioni intorno a me. Prima la discrezione del padre Ugo che si palesa in punta di piedi mentre indosso la maschera da saldatore e pensa di non essere visto, poi, all’ammiraglia condotta da Cristiano nel mio giro aziendale, si affiancano, con la velocità del giovane gregario che non osa neppure appoggiare la mano sul finestrino, Federico e infine Nicolas, rispettivamente secondo e primogenito. Il più piccolo, Francesco, 18 anni, è a scuola. Ma ha già segnato un goal da consumato comunicatore. In vacanza a 15 anni, incontrando Roberto Mancini e scoprendolo deluso che in hotel non c’erano buone biciclette, gli fece trovare l’indomani mattina una De Rosa fiammante. Da allora il famoso allenatore, ieri all’Inter e oggi in nazionale, è un affezionato cliente De Rosa.
E la famiglia converge, mi affianca… mentre percorro in lunghezza l’officina dove, ai nuovi telai in produzione si alterna l’esposizione delle “eroiche” protagoniste del passato: la prima bici da corsa del ’54, la bicicletta di Mercks, quella di Berzin, la prima in alluminio… Insomma la storia è viva è lotta insieme a noi. Non è rinchiusa in una teca di cristallo.
Quando infine approdo alla tappa centrale del tour, e cioè nella stanza dove sono entrata solo io e i buyers giapponesi il giorno prima, a scoprire la collezione del 2020, ecco che un rispettoso “buongiorno zio” davvero inusuale per chi ha vent’anni oggi, ma pronunciato con la naturalezza della consuetudine, saluta l’entrata in scena di Danilo. Ci sono tutti ed io non posso che essere onorata di questa attenzione.
Le biciclette della nuova collezione sono misteriosamente coperte da teli neri. Ed io naturalmente non mi pongo neppure il tema della curiosità. Per discrezione. Però forse ho superato positivamente tutte le prove iniziatiche e quindi merito il premio della visione in anteprima.
Ciò che ho visto non lo posso dire, ma si sappia che c’è la conferma oggettiva di un percorso corale, dove ognuno ha fatto la sua parte, fino all’ultima generazione. Ed è evidente: il futuro di De Rosa è un’evoluzione forse ancora più convincente del suo passato, che tuttavia non dimentica. Anzi, lo valorizza. Lo promuove. C’è lo zampino di Pininfarina e si percepisce che tra il blasonato ufficio design e la storica azienda milanese si è creata l’alchimia perfetta. Tra persone prima ancora che tra entità aziendali astratte.
“Sentendo i designer che motivavano le loro scelte di rinnovamento grafico mi sono accorto che pensavo le stesse cose…” dice Cristiano. E alla domanda sui nuovi colori del 2020 che ad un certo punto mi affiora alle labbra senza temere di essere inopportuna e pensando a quanto le aziende italiane che producono biciclette potrebbero fare meglio, ecco che chi ha contribuito alla loro scelta e definizione, ovvero Nicolas, dopo aver incassato l’ok paterno solleva piano i teli neri e mostra… mostra tre tonalità nuove che veramente spaccano. E che sembrano proprio la migliore risposta a chi nel mondo cerca l’emozione e l’eccellenza italiana.
Chiedo venia per questo racconto così entusiasta. Ma è tutto vero. In De Rosa ho trovato senz’altro ciò che mi aspettavo: ricerca, qualità, tecnologia e naturalmente anche amore, così come comanda il cuore del logo. Ma il vero “ingrediente segreto”, quello che mi ha sorpresa e che forse i De Rosa non hanno ancora scoperto di possedere, è unico e difficilmente si trova in giro. È la poesia.