Da cosa parto per raccontare l’incredibile esperienza della De Rosa Granfondo Firenze? Dai quasi 300 ricoverati per ipotermia? Da quelli che hanno girato le ruote appena a Fiesole? Dal fatto che nel farla mi sono sentita un po’ Bartali?
Sono tante le sfaccettature di un’impresa che nel cuore di molti è già diventata leggenda. E ancora non ci credo che insieme a poco più di 800 coriacei ciclisti, di cui solo 33 donne, ce l’ho fatta anch’io. Non ci crede neppure il mio Garmin che in certe tratte di inequivocabile salita mi segnava nel monitor il “-“ mangiandosi circa 700 mt di dislivello. Ma bene! Non poteva mancare questa soddisfazione. L’umore però, dislivello a parte, è alto. Come l’Everest. E lo è ancora adesso. E lo era persino durante la gara. “Poteva andare peggio. Poteva piovere!” diceva quel ciclista nel superarmi tra gli scrosci d’acqua che ci hanno accolto a Fiesole, proprio all’inizio dell’avventura. Mi faccio una bella risata e poi vedo stampato sulla schiena il suo numero di gara. Ohibò è il 666! Ok, si sta scherzando niente meno che con il diavolo in persona, ovvìa. Ma nonostante si sia nelle terre predilette della bestemmia facile, tra le file dei ciclisti c’è invece un’insolito silenzio. Sarà perché tutti battono i denti per il freddo? Senza dubbio. Ed ecco allora com’è andata.
Partenza bagnata…
Alla partenza c’è il sindaco ad attenderci. Ha un aspetto che oserei definire radioso. Il suo sorriso spicca tra le brume della giornata uggiosa. Viene da me bello spedito e mi saluta tutto allegro. Ciao io sono Dario Nardella. E io mi chiamo Laura, molto piacere!
Lo speaker è uno spettacolo. Fa più lui della tecno pompata di sottofondo. Cristiano De Rosa, accanto a me alla partenza, mi dice che è un personaggio famoso proprio per la carica che riesce a trasmettere. E infatti, con i suoi ruggiti tonanti al microfono, dà a tutti una bella smossa. Anche alle nuvole che, dalle prime timide goccioline espresse nell’attesa, passano, a pochi secondi dal via, alla consistenza della pioggia vera, quella che ti bagna sul serio. Per fortuna avevo già indossato la mantellina.
Come sempre dal meteo si capisce tutto
Perbacco piove proprio!
E dire che le previsioni erano incerte fino all’ultimo. Con un sabato freschino, ma a tratti con un gran sole generoso. Nessuno ci credeva fino in fondo al tempaccio. Un ciclista ha sempre l’idea che pedalando i nuvoloni neri si schiudano al suo passaggio, come le acque di Mosè. E invece stavolta no. Stavolta sarà acqua a catinelle dall’inizio alla fine.
Tuttavia, davvero incredibile, io che mi sono sempre pensata metereopatica e incline ad avere il muscolo atrofizzato dal freddo ecco che mi scopro dotata di risorse mai viste. Del resto la salita verso Fiesole è davvero piacevole. Non ci sono strappi duri, la fatica non c’è. Sarà la bici prestata dalla De Rosa. Una piuma. E i freni? Mai provata una simile percezione di sicurezza. Eppure sono meccanici, ma doppi. La sensazione alle mani è di governare con le leve due morbidi cuscini, in cui soffocare le discese più cattive.
Gestire la gara. O meglio: scommettere di farcela
Sono quindi concentrata su me stessa, con l’ignoto davanti che è sì spaventoso, ma non più dello sbadiglio di un mostro per bambini. Cristiano De Rosa e l’amico Armando, con cui avevo avviato una conversazione prima di arrendermi al mio passo decisamente più bradipo, sono andati avanti. Ma io non mi sento mai sola in queste occasioni, perché ascolto le mie forze. E le voci questa volta erano davvero tante. Ce n’era una che mi martellava sui km fatti. Ma come, non sono ancora neppure 20? Un’altra che forse era quella del legittimo proprietario della bici, il giapponese Kohei Uchima, “passista, uomo squadra e possibile uomo da fughe” (così recita il sito del team) che continuava a ripetere un ottimistico “banzaiii!!!” ad ogni pedalata. Poi c’era la vocina dello sconforto, che naturalmente cercavo di non ascoltare. E infine quella che, dai 40 km in su mi diceva: “dai che sei quasi a metà”. Chissà comunque perché, nonostante vedessi frotte di ciclisti fare inversione di rotta anche prima di raggiungere Fiesole, mai mi è balzato in testa di fare altrettanto. Forse perché la paura di perdersi nel ritorno era più forte dell’idea di continuare. E poi perché, probabilmente per il freddo, ogni dubbio sembrava congelato e di conseguenza l’unica era andare avanti.
Quando il freddo si fa sentire in bicicletta…
Nel contempo si vedevano scene apocalittiche. Al ristoro c’era uno che asciugava i guanti con un tubo di scappamento. E in seguito mi è stato raccontato che un altro, in preda al panico per il freddo, si è sdraiato sotto ai tappetini sporchi di un auto al lavaggio, in cerca di qualche grado di temperatura in più. Effettivamente c’erano frotte di bici anche da migliaia di euro gettate senza alcuna pietà sull’erba a bordo strada con i loro ciclisti intenti a scaldarsi nei tanti pulmini inviati in soccorso dall’organizzazione. Eppure sembravano non bastare. E allora c’erano tanti bravi automobilisti di passaggio fermi ad accogliere ciclisti congelati per un temporaneo conforto in un interno riscaldato. L’unico bar incrociato sulla strada sembrava pieno come il vagone di una metropolitana.
È quindi stato allora, mentre i miei occhi vedevano tutto ciò, che ho incominciato seriamente a pensare che potevo farcela. Sì perché nonostante indossassi solo un intimo anti vento, la maglia estiva ufficiale della gara, manicotti e mantellina, calzoncini corti, calze di cotone e le scarpe con il puntale, con i piedi che già prima di fiesole erano due ranocchie nello stagno, mi sono resa conto che, diversamente dalla maggioranza, non sentivo affatto un freddo esagerato. Merito forse del cappellino-talismano del mio cliente PH con l’arcobaleno sopra? Certo è che non sentivo quel freddo che coglievo negli occhi disperati di chi si fermava tremante come una foglia, avvolto in improvvisate mantelline fatte con il sacco nero della spazzatura. Ecco… giusto un po’ di insensibilità alle dita delle mani. Del resto che si pretende? Avevo i mezzi guanti estivi!
Scoprire in sé una resistenza mai vista prima
Insomma, sono dunque dotata di qualche super potere? Eh no… molto semplicemente avevo ben altro per cui disperarmi: la sella! Mai più, e sottolineo mai più, senza la mia. Mio errore imperdonabile. Un ciclista che di sé conosce questa debolezza non può lasciare la propria sella a casa. Così ad ogni giro di pedale era uno strazio. A cui si aggiungeva una maledizione che tiravo a me stessa. Già dopo 5 km aveva incominciato a farsi sentire e, giuro che non mi pento, ogni volta che incrociavo l’auto del brand di queste blasonatissime nonché incolpevoli selle, mi veniva da tirare giù tutte le madonne e i santi. In puro stile toscano. Ecco quindi il mio segreto: chiodo scaccia chiodo. Novità, la sella scacciapensieri!
A questa nobile distrazione ho aggiunto poi un minimo di sense of humor: “è grappa?” chiedevo al volontario che mi porgeva il bicchiere con uno strano liquido verdino. “…ma nooo è una soluzione con dei sali!” “ah ok – replicavo – insomma roba buona più per le mie lenti a contatto!“. Senza contare poi l’indispensabile buon senso. Non ci vuole infatti molto a capire che a fermarsi troppo a lungo in un ristoro poi, alla ripartenza, ci si congela.
Io ho appoggiato giusto un piede, 60 secondi per spremermi l’imprescindibile gel One Hand della Enervit, quello più veloce che puoi anche consumare in corsa senza problemi di equilibrio.
Così continuavo a spingere sui pedali, animata dall’idea che sì, questa volta la missione speciale sarebbe stata la più nobile ed esaltante: farcela. Arrivare alla fine con le proprie gambe. Battere il clima. Proprio come quella famosa volta in cui Bartali evitò la guerra civile in Italia vincendo al Tour de France nel ’48. Ed io di che mi lamento? Non sta mica nevicando!
Dopo il laghetto di Bilancino nel Mugello delizioso nella sua calma invernale e lasciato con il rimpianto di non averlo visto baciato dal sole, dopo un paio di passaggi su stradoni veloci, superando in piano i 44 km/h, e un paio di agglomerati di case contadine dove le poche anime incrociate si prodigavano in un caloroso incitamento, eccomi finalmente all’ultima, morbida salita. Sì c’era giusto una breve formalità da sbrigare prima di scendere a casa. E affrontare lo strappo di Via Salviati. Ed è qui che ho incrociato Anna.
A bordo strada vedo un ciclista magrolino che spinge a mano la bici con passi incerti. “Tutto bene?” Mi volto e vedo una donna biascicare una risposta incomprensibile. Mi fermo? Sì mi fermo. Tanto mica si punta alla classifica, ovvìa! 58 anni, braccino destro rattrappito dal freddo, Anna non sarebbe stata più in piedi troppo a lungo. La sostengo e riesco ad appoggiarla al muro inclinato della strada. “Mi viene da vomitare” mormora debolmente. Mi fa segno con la mano alla tasca posteriore: “antiacido…“. Ok, ma ahimè delle pastiglie non rimanevano che i gusci vuoti. Allora incomincio a sfregarle le spalle energicamente per scaldarla. E se ha una congestione che faccio? Stavo giusto iniziando a rendermi conto della mia inettitudine, come sempre accade in questi casi imprevedibili, che per fortuna si ferma un’auto. C’é una coppia di bravi signori che fanno salire Anna a scaldarsi. E a me danno una bella spinta per ripartire sull’ultima salita!
Un po’ di tregua dalla pioggia arriva giusto per il gran finale su per Via Salviati
Ormai si sente il profumo di Firenze. E una fettina di sole fa capolino facendo scintillare l’asfalto. Ci siamo. Tra poco affronterò l’ultimo livello del gioco: lo strappo di via Salviati. Eccolo è lui. La curva secca che lo precede è costellata di segnali. Ci manca solo il tappeto rosso. Svolto e si apre davanti a me un abisso rovesciato. Diritto. Implacabile. Molto più impressionante del muro di Sormano. Lo vedi tutto, non ci sono curve e alberi a confondere le idee.
Devo quindi decidere in fretta. Metto il 32? Meglio di no. La catena potrebbe rovinosamente cadere ad un passo dal traguardo. Non mi merito di spingere a mano la bici proprio all’arrivo. Erano infatti stati aggiunti, su mia richiesta, il 30 e il 32 e quindi il rischio c’era tutto. Soprattutto ingranando su una salita così repentina. Da casa alla partenza in piazza Michelangelo la catena era infatti caduta un paio di volte sulla rampa più ripida. Del resto… l’aggressiva Protos di Uchima non poteva certo contemplare un rilassante 32 da amatore.
E allora ok, vada per il 28! Banzai! E non mi vergogno del mio zig zag. Piuttosto devo farlo bene, senza scontrarmi con nessuno… Dietro di me ho appena sentito uno schianto e qualche bestemmia volare.
Ma ecco gli ultimi 100 mt. Qui siamo al 19%… aiuto! La bici miracolosamente non s’impenna e il manubrio riesce a pennellare una splendida serpentina nonostante le mie braccia siano ormai morbide come quelle di un Pinocchio scolpito nel tec.
Ecco la striscia blu dell’arrivo, proprio dove spiana! La pelle delle cosce sembra non riuscire più a contenere i muscoli… brucia tutto! E il mio ansimare è davvero incontenibile, oltre che lievemente imbarazzante. Già… a sentirmi pare proprio io stia raggiungendo qualcos’altro, anziché un traguardo.
Ci sono, è fatta, ovvìa! Ora non resta che raggiungere i De Rosa al villaggio. “Scusi è per di qua che si va al Parco dell’Uccellina?” “Signora mia che tempra! Saranno almeno 150 km” scoppia a ridere il vigile a cui ho rivolto l’improbabile domanda. “Ok, ok, il Parco delle Cascine!“. Eh sì… dopo 100 km passati in compagnia di Bartali e di tutti gli eroici ciclisti toscani che si sono temprati al gelo di queste aspre terre, lasciatemi vivere ancora qualche secondo nel regno magico delle missioni impossibili.
Tutte le foto ufficiali dei ciclisti sono di Castagnoli. Si ringrazia la De Rosa e la Granfondo Firenze.