Già il suo nome arcigno incute timore. E a nulla valgono i cuoricini simil-gelato-Algida disseminati dalla proloco o dai tanti ciclisti riconoscenti che qui hanno probabilmente forgiato le gambe per raggiungere grandi risultati in carriera: la Valcava è tosta. Punto e basta.
Era da una settimana che l’amico ciclista Davide aveva proposto questa avventura. Il primo messaggino mi pare risalga proprio a quando ebbi la consapevolezza che il tempo non mi avrebbe portata al Ghisallo dal Vigorelli. Tempo in tutti i sensi: la sua mancanza per motivi di lavoro, ovvero la preparazione del press day, e la sua declinazione meteo. Perché, insomma, non viene proprio spontaneo fare l’impossibile per una transumanza ciclistica potenzialmente sotto la pioggia, quando poi, al di là dell’itinerario simbolico, io quest’estate ho raggiunto il Ghisallo da ogni prospettiva di salita. E sempre con un bel sole.
Così, ecco, avevo proprio bisogno di qualcosa di nuovo. Di qualcosa che potesse suonare come un’inedita, grande impresa. E sì. La Valcava la è proprio. Specie se si affronta agganciando il pedale sotto casa, nella certezza che a fine giro saranno in tutto 140 km.
Si parte quindi baciati da un sole che è già promessa di felicità e stupendi paesaggi autunnali da ammirare. Siamo in tre. Si è aggiunta Daniela, l’amica di Strava conosciuta di persona alla Deejay 100. Il suo fisico minuto fa di lei la perfetta grimpeur. Davide ed io già sappiamo che verremo seminati fin dai primi metri. No problem, l’importante è aspettarsi in cima.
Ed è poi bello scoprire che nel ciclismo ci si può aggregare con la facilità con cui si faceva amicizia da bambini.
Paolo ci nota dopo la traversata del parco di Monza: “cosa fate?“. “La Valcava“, rispondo con una certa enfasi orgogliosa. “Vuoi venire con noi?” aggiungo infine, più inclusiva, visto che la meta avrebbe potuto scoraggiare. Anche se l’immagine del nostro terzetto esprimeva sicuramente l’idea di una Valcava soft, da affrontare ciascuno con la sua gamba.
Così eccoci in quattro. Belli nel sole e sorridenti verso la temibile meta. Nel mio caso con l’ignara inconsapevolezza di ciò che mi aspettava.
Sì perché non è che avessi tanto studiato… Nel caso del Muro di Sormano erano mesi che sbirciavo le mappe e si può dire che conoscessi già ogni metro della sua altimetria. Qui invece sapevo, nell’ordine:
1. che la Valvava è quasi 12 km di salita
2. che sono gli ultimi 6 km a essere pazzeschi (ma anche i primi 6 sono spesso con pendenze a doppia cifra)
3. che i famosi ultimi 6 km sono costellati di rampe anche al 18% e che, come dice Davide, non sai mai quale di queste ti fregherà.
Ma quante ce ne sono di queste famigerate rampe? E soprattutto, tra l’una e l’altra, ci sarà modo di riprendersi dal trauma?
Così, forte di tutte queste certissime incognite che mi attendono lascio che Daniela fugga agilissima già dai primi metri. La sua leggerezza sembra soffiarla verso l’alto. La perderò di vista dalla prima curva.
Conviene però che io faccia bene i conti con il mio aumento di peso autunnale e con il matrimonio dell’amica di un paio di giorni fa. Al ristorante pugliese c’erano certi frittini… e come tirarsi indietro davanti a quel rosè così fresco?
A tavola poi non poteva mancare un parente ciclista che della Valcava mi dice: “non sono riuscito a finirla. Mancavano poche centinaia di metri ma all’ultima rampa mi sono inchiodato e ho mollato…“. Queste parole mi perseguiteranno per tutta la salita, nel ricordo ancora più inquietante che a pronunciarle non fosse stato un tipo sovrappeso, ma uno snello, atletico uomo di mezza età. Di quelli che, lo vedi, riescono a fare di tutto anche se escono solo la domenica.
Così, persa nei miei dubbi, eccomi a immaginarmi a inseguire Daniela, nel mentre, di curva in curva si dipana una salita che potrebbe essere la Nesso verso la Colma di Sormano. Ritmica. Costante.
Tutta la prima parte la faccio senza forzare, cercando di mantenere almeno 9/10 km/h.
Finché… ci siamo! Un cartello stradale triangolare, di quelli che indicano le salite che le auto fanno fatica ad affrontare, contiene un’informazione supplementare: 18%.
Sembra aggiunto a penna, così sottile… eppure tanta delicata ed evanescente presenza prestissimo si tramuterà in un drittone dove i muscoli delle gambe grideranno pietà già dopo pochi metri.
È così. Un po’ come al Muro di Sormano: non ci si può credere. Ogni cm delle tue gambe sembra voler esplodere, eppure si riesce ad avere ugualmente una pedalata più rotonda. Spingi e tira. Mentre il tappeto di foglie morte incollato all’asfalto ti aiuta a capire quanto riesci a procedere, proprio come i singoli metri di quota dipinti sul Muro.
Riesco a non scendere sotto ai 5 km/h. È già un successo. E sul Garmin a sorpresa appare, per un secondo, un inquietante 20%. Ma per fortuna la bici non s’impenna. È un po’ questo, infatti, il fenomeno che temo di più. Il dover gestire la ruota che si stacca da terra, senza alcun talento per il freestyle.
La cosa curiosa è quello che “ti dice il cervello” in queste situazioni estreme. Mentre gli occhi cercano affannosamente un punto ideale in cui la strada potrebbe spianare, la mente ha così da fare nel coordinare cuore, polmoni e gambe, che non c’è spazio per altro. Così l’effetto “encefalogramma piatto” da una parte ti protegge dall’istinto di girare la bici e scappare, azione troppo complicata da capire, e dall’altra ti lascia in balia di un canto delle sirene che semplicemente t’invita a staccare il piede dal pedale e posarlo per terra. Sì dai… solo per qualche secondo. Che sarà mai?
Ecco, è proprio come diceva Davide. Non sai quale rampa potrebbe fregarti. Anche perché qui la strada “spiana” al 13%. E persino quando scende a un più umano 11% hai accumulato talmente tanto acido lattico che ti sembra comunque di scalare 5 o 6 gradi in più.
Per me la sfida mentale, oltre che fisica, è stata l’ipotetica ultima impennata. E non chiedetemi quante ce ne fossero state prima. Non me lo ricordo. Gli incubi è bene dimenticarli subito al risveglio.
Una coppia di motociclisti mi precedeva e così sento che spengono il motore, dopo una lieve curva. S’intuiscono anche delle case. Che sia la fine? La ragione dice no, visto che sembrano mancare ancora un paio di km. Ma avrò contato giusto? Le dita si muovono sulle leve freno come fosse un pallottoliere. Perdo il conto almeno tre volte. Sono lucida come gli astronauti nei test dell’ossigeno degli anni ’60.
Dopo la svolta l’amara realtà. La strada s’impenna ancora. Bella diritta fino ad una curva con una casa. Devo farcela. Devo arrivare lì e senza alcuna illusione che poi sia effettivamente finita. Mi concedo un po’ di zig-zag. E mi convinco che sia qui che il parente della sposa abbia deciso di gettare la spugna.
Più indietro a me percepisco un vuoto. Forse Paolo, che mi tallonava costante ad una decina di metri, si è fermato. Mi sento terribilmente sola. La sua presenza discreta era d’appoggio.
Passo la curva e incrocio un ciclista in discesa. “Dai che è finita!“. Ma dici sul serio? È finita? Non è che “spiana” ancora al 13%?
È stato come riaccendere la luce. “Grazie!” riesco solo a mormorare a scoppio ritardato. L’angelo dell’annunciazione è ormai sceso di una ventina di metri.
Intanto tutto si è già trasformato. E la strada sembra aver ripreso vita, restituendomi la compagnia di un gruppo di escursionisti che scende da un sentiero e superando una coppia di anziani, che saluto – “buongiorno!” – con l’enfasi di un naufrago.
Ecco le antenne! Sembrano attirarmi con la loro potenza elettromagnetica! Ecco la casetta in ondulato marrone… ed ecco il chiosco con un’irresistibile profumo di salamella. Ed ecco infine anche Daniela, pronta a scattarmi le foto dell’arrivo!
L’aria è fresca, rarefatta. La sensazione è di essere in altissima quota, magari sull’Everest. E chi si può incontrare a queste altezze vertiginose se non Luca Salvadeo? È proprio lui che arriva dall’altro versante mentre scattiamo le foto alla casetta marrone. Non si può non ricordare la sua impresa a beneficio di Dynamo Camp: l’everesting sulla Valcava. Cioè: 9 volte l’ascesa che ho fatto io in un lunghissimo giorno. Roba da Avengers!
E a proposito di supereroi ecco infine raggiungerci anche Davide. Che con la forza della sua determinazione ha superato tutti i suoi ostacoli: tre settimane di stop, il suo peso e il cambio che saltava continuamente.
Scendiamo quindi tutti medagliati. Tutti abbiamo vinto. Tutti effettivamente, proprio come suggerisce la casetta marrone, porteremo nel cuore questo terribile mostro che è la Valcava.