Vivere appieno un sistema… quello della moda… dove si sussurra che per essere “giusto”, devi stare accanto alla gente “giusta”, frequentare la gente “giusta” … essere nei posti “giusti”, nelle feste “giuste”, nei front row “giusti”, nei red carpet “giusti” e si potrebbe continuare…
Ecco a volte tutto questo meccanismo, può essere snervante e mettere profondamente a disagio.
Disagio magari…per propria timidezza, riservatezza o per essere per indole, persone più progettuali piuttosto che rivolte all’aspetto più p.r. di questo sistema modaiolo a volte divertente … a volte “schiacciante”.
E a disagio può essere stato – almeno all’inizio del suo percorso lavorativo – anche un ragazzo all’epoca di appena 20 anni che in questi cliché del sistema ha provato per un po’ a farne parte ma che poi, ha preferito viverli raramente e tornare concentrato e a testa china, a disegnare “behind the scenes”… dietro le quinte.
Marco de Vincenzo appena ventenne ha iniziato a lavorare nella moda, arrivava a Roma da una piccola realtà siciliana … dove per esempio la parola concettuale – siamo negli anni 90 – non era contemplata e dove lo spazio era dato invece a vetrine massimaliste quelle dei grandi stilisti dell’epoca … che dettavano l’avanguardia, dettavano l’essere alla moda… raccontando un sogno o una storia di stile che forse perché (solo apparentemente) meno cervellotica e comprensibile ai più, era più rassicurante.
De Vincenzo (classe 1978) … che all’epoca – nonostante tutto – il massimalismo lo guardava … ha però vissuto il sogno poi diventato reale, di un’estetica più articolata, che magari tracciava di basico un abito ma che poi – dietro quel basico – nascondeva invece un lavoro di processo mentale e di pura e complicata sostanza.
Erano gli anni nei quali per chi aveva voglia di andare oltre – approfondendo il linguaggio del vestire – c’erano da analizzare designer come Rei Kawakubo oppure Martin Margiela e Miuccia Prada parlava visivamente di quella moda minimale … che andava a cercare un’estetica diversa… chiamata a volte con provocazione: l’estetica del brutto.
Lo stilista che come da sua stessa ammissione è sempre stato un foglio bianco… pronto a imparare, a cercare la sfida dello sperimentare iniziò così a farsi le ossa con le sorelle Fendi (dove lavora ancora oggi) … sotto la guida di Silvia Venturini Fendi … ma vedendo – allo stesso tempo – lavorare anche Karl Lagerfeld… ed imparando da entrambe la bellezza della fatica … del voler fare sempre ciò che appare o semplicemente è più difficile… più tortuoso da raggiungere, più complicato o apparentemente più inespresso.
Oggi Marco de Vincenzo è riconosciuto a livello internazionale tra le voci più originali e interessanti della moda contemporanea.
Il suo tocco stilistico – quello di un designer principalmente “di materia” piuttosto che di volumi – è venduto tra i diversi paesi, negli Stati Uniti, in Giappone e in Korea e tutto per un modo di lavorare concettuale ma dove il lurex trova per esempio spazio nel basico e anche nel guardaroba maschile.
Un talento quello di de Vincenzo che il colosso mondiale LVMH ha abbracciato: sostenendolo, rassicurandolo ma lasciandolo libero di essere stesso, di essere pura creatività ma con “la testa” per saper vendere. L’ho incontrato questa settimana per Focus On.
Intervista a Marco De Vincenzo
E’ difficile far parte di un sistema – quello modaiolo – con delle dinamiche e dei cliché da rispettare? Ricordo che un giorno mi dissero… “devi stare un po’ più dentro il sugo” un modo per dire che dovevo frequentare di più l’ambiente e lavorare con quelle persone che il sistema della moda in quel momento imponeva. Ecco, io ci ho provato ma il tutto mi è sembrato molto impersonale. Io sono un designer un po’old style e mi piace invece molto di più tutto il lavoro che sta dietro una presentazione o uno show… perché di base sono un progettista e amo principalmente costruire le collezioni. Se poi qualcuno all’improvviso – magari al termine del mio lavoro – mi suggerisce di mescolare i capi in un modo che non sento mio oppure mi suggerisce per esempio dei pezzi musicali per il mio show .. ecco tutto ciò non mi convince perché in realtà credo nelle collaborazioni vere che nascono da alcuni passaggi in più. Voglio dire che se una persona ha seguito fin dall’inizio il perché della mia collezione e che cosa c’è dietro … credo che questa persona possa chiudere il cerchio in maniera più giusta.
Che cosa significa essere un designer concettuale? La moda concettuale è l’unica moda che in realtà mi piace… e che in un certo senso ho scoperto da solo. Arrivo dalla Sicilia, da un territorio dove di base – quando ero piccolo – la moda non esisteva se non in qualche pagina di giornale o in qualche negozio che la portava nelle sue vetrine. Ho fatto davvero molta fatica a distaccarmi dallo standard… da ciò che si respirava in una città di provincia e dal massimalismo di quell’epoca. Poi ad un certo punto ho scoperto che esisteva un’estetica diversa da quella che ti raccontavano i mezzi che avevi a disposizione. Così mi sono innamorato di una moda che raccontava punti di vista diversi che non si traducevano a volte per forza nel bello ma che parlavano invece di una storia raccontando addirittura il brutto. Il brutto che non è poi nelle mie corde … perché sono un decorativo … Ecco… sapere che c’era dell’altro mi ha istruito e mi ha dato dei mezzi in più per capire da che parte stare.
Ma su cosa si costruisce un abito concettuale? Nasce e si costruisce da un pensiero astratto ma anche da un profumo inteso come un’atmosfera, una sensazione, che hai nella testa e che riesci poi a concretizzare in un abito. Oppure per realizzare un capo si può partire da un oggetto perché magari ti innamori di una scultura o di un pezzo di ceramica… che cerchi poi di trasformare in quello che è il tuo mestiere ovvero in un vestito. Ciò che per me ha sempre un valore è in ogni caso l’idea …nel senso che se penso che qualcuno da un oggetto, da un’atmosfera di un viaggio, oppure da un dettaglio per esempio i fregi di una cornice … possa trasformare tutto ciò in un abito… ecco tutto ciò mi esalta. Sono estremamente affascinato dal processo mentale che poi porta alla realizzazione concreta.
Concettuale e sensuale posso essere coesistere? Può succedere che una donna concettuale sia anche sensuale … . Ecco come io edulcoro la mia passione anche per l’estremo e per quello che è diverso da me…. Io cerco di stemperare il concetto e trasformarlo in qualcosa che può essere magari più femminile – sexy è una parola già più complessa. Anche se io non amo il sexy inteso nella sua prima accezione del termine… perché preferisco una sensualità dosata anche se in effetti io sono convinto che tante persone che osservano il mio lavoro in maniera meno approfondita potrebbero non definirmi un designer concettuale… invece io penso di esserlo… è il risultato che inganna.
Chi sono i tuoi colleghi designer concettuali che ti piacciono? Per me un designer concettuale è Christopher Kane che io amo. Lui parte sempre dalla strada più difficile cercando di fare qualcosa di nuovo e questo è un aspetto che mi piace molto anche perché sono attratto dalla fatica. Ecco lui parte da un concetto a volte astratto e a volte no e lo trasforma. Mi piace molto e stimo anche il lavoro che Francesco Risso sta facendo per Marni. Risso è un altro designer concettuale che esplora delle forme e dei risultati interessanti. Anche se devo dire che io sono curiosissimo di tutto, sono come un foglio bianco, non sono mai impermeabile a niente… c’è sempre qualcosa che mi piace, in ogni tipo di musica, in ogni tipo di cinema o di ogni forma d’arte.
Chi è la donna concettuale che ti piace? Per anni sono stato affascinato da Peggy Guggenheim, ovvero da quello che lei trasmetteva, dalla sua vita e scelta estetica così eccentrica. Questo genere di donna è sempre nella mia testa quqndo penso ad una collezione o a dei progetti. Mi piace molto anche Ambra Medda oppure la gallerista Pepi Marchetti Franchi .. parlando di attrici una donna che amo è per esempio Valeria Bruni Tedeschi che trovo che riesca ad indossare tutto sempre con un senso e mettendoci molto del suo senza quelli che possono essere i filtri magari di una stylist.
Che cosa ti hanno insegnato le Signore Fendi? Mi hanno insegnato tutto. Mi sono formato con Silvia Venturini Fendi… con la famiglia Fendi… e con loro ero come uno studente al suo primo giorno di scuola. Mi hanno fatto scoprire un mondo che non conoscevo e per una persona curiosissima e “affamata” di cultura e di “sapere” come me tutto ciò è stato davvero un dono. Loro hanno sempre scelto – nel loro lavoro – la strada più tortuosa, non si sono mai adagiate, anche a costo di sbagliare… mi hanno insegnato la capacità di rigenerarsi e scegliere un percorso diverso ogni stagione.
Che cosa hai imparato invece da Karl Lagerfeld? Karl mi ha fatto capire quanto io fossi di vecchio stampo. Il suo modo di lavorare era estremamente moderno, era un uomo che non si fermava mai ma allo stesso tempo lui era un designer come quelli di una volta.. nella sua scrivania c’era della carta da disegno, c’erano i pastelli molto old style… ma era anche lui un designer concettuale, era un progettista e dalle sue ossessioni lui sceglieva sistematicamete il percorso più complesso… non l’ho mai visto scegliere la strada più semplice.
Il tuo marchio è legato al colosso Lvmh. Sono stato un designer indipendente per 4 anni… poi ad un certo punto la realtà è diventata complessa e il gruppo Lvmh mi ha sostenuto e ha voluto fare una partnership pur dandomi respiro e lasciandomi però libero di creare … di essere me stesso.
E’ più importante creare o vendere? Oggi forse posso dire che è più importante vendere. Marco de Vincenzo è venduto in circa 50 negozi nel mondo. Siamo in Corea, Giappone, negli Stati Uniti .. poi come spesso accade, ci sono stati chiaramente degli alti e bassi nel senso che i clienti cambiano oppure… si scoprono delle realtà nuove che non conoscevi. Negli ultimi anni nello specifico sull’accessorio scarpe siamo molto forti diciamo che sono diventate il nostro business principale.
La collezione uomo invece? L’uomo Marco de Vincenzo ha debuttato a Pitti – che mi ha accolto nel modo migliore – e fare una collezione maschile è stato meraviglioso, perchè ha tirato fuori delle zone più remote della mia creatività. Con l’uomo ho fatto delle scelte diverse. Mi sono scoperto abbastanza maturo ed è come se tutta l’esperienza che ho imparato in questi anni sia proiettata ora in un territorio inesplorato. Il mio uomo predilige forme assolutamente basiche ma con una sorta di eccesso sottinteso.
Che cosa è per te la virilità per te? Il concetto di virilità è cambiato totalmente negli anni. Io devo dire che mi sono liberato piano piano di alcuni pregiudizi ed oggi mi piace una virilità più misteriosa non così palese.
Oggi sfili a Milano con la nuova collezione maschile, come sarà quest’uomo? Giocherà con un po’ di accenti femminili ma sempre tenuti a bada. Sarà un uomo con una silhouette rassicurante nel senso che non ci sono degli eccessi di nessun tipo ma con delle sorprese dal punto di vista della materia, ci sarà per esempio qualcosa che luccica in modo inaspettato, che ad un certo punto interrompe il rigore.
Che cosa ne pensi delle sfilate Co.ed ? Io credo che siano una diretta conseguenza del ritmo. Dal punto di vista creativo pensare due collezioni insieme è molto più facile e per me crea anche un’uniformità di espressione maggiore. Credo che tutti i designer affaticati dalle collezioni continue, abbiano voglia di lavorare ad un progetto unico. E poi devo dire che è innegabile che l’estetica del mondo maschile e femminile si stia sintetizzando in una. Ci sono molti mercati come soprattutto quelli orientali dove le differenze sono ancora del cliente – del compratore – e si sono assotigliate. Io stesso negli anni ho venduto per esempio capi da donna anche a uomini… nel senso che è stato il cliente finale a dirmi lui stesso: << guarda questo capo lo hai pensato per lei ma posso mettermelo anche io>>. Il mondo fuori è veramente molto molto veloce anche in questo.
Ci sono degli stilisti che sono delle star per anni, poi all’improvviso vengono buttati giù da questo piedistallo e non se li ricorda più nessuno. A te non spaventa questo modus operandi del sistema? Mi spaventa moltissimo. La moda effettivamente è molto infedele perché ha bisogno di effetti sorpresa, di meteore, di riaccendersi. E come se la moda… avesse ogni tanto bisogno di tradire qualcuno per credere in un altro. Penso che questo sia un aspetto molto triste e soprattutto credo che abbia molto a che fare con la personalità del designer nel senso che con il tempo ho capito di come la tua indole sia davvero fondamentale per poter stare in piedi. Devo dire che io cerco di fare il mio e al meglio senza pormi il problema…
Che cosa hanno gli italiani che non funziona per cui alla fine di italiano è rimasto ben poco visto che tutti i marchi del lusso di base sono stati venduti? Che cosa c’è che non va… sono forse dei creativi ma non dei bravi imprenditori ? Qual è la tua opinione ? Io credo che in Italia forse manca il coraggio imprenditoriale nel senso che non si ha il senso del rischio anche quando magari si è nella condizione di poterlo fare. Piuttosto si preferisce prendere dei rischi quando un progetto arriva dall’estero o è più strutturato. Questo credo sia un comportamento-atteggiamento molto italiano. Ricordo che anni fa – da stilista indipendente – incontrai dei designer inglesi e rimasi molto colpito di come all’epoca mentre io ero coinvolto anche in aspetti amministrativi e manageriali loro invece erano totalmente dediti alla pura creatività perché supportati nel loro paese in misura maggiore. Infatti se ci fai caso i designer inglesi scompaiono con meno facilità.
Come reggi lo stress e le pressioni in un sistema così competitivo e complesso ? Le reggo pressioni rimanendo ben saldo alla mia la creatività che mi rilassa e che mi ha sempre salvato … perché tutto mi può essere tolto ma non questa… è la fonte dalla quale curo le mie ferite. Ripeto tutto puoi togliermi tranne la creatività…
Fonte foto: press office Marco De Vincenzo