Complice la classica lettura estiva, ovvero quei libri che ti regalano e li metti lì, sul comodino, con la certezza che potrai leggerli soltanto in agosto – quando le nubi degli impegni finalmente si diraderanno e lasceranno spazio al sole dello svago – durante questa vacanza ho scoperto una cosa: accidenti! Non è poi così scontato che le donne corrano in bicicletta!
Nota: questo non è un articolo da pasionaria femminista, ma la cronaca un po’ stupefatta di chi si è imbattuta, direi per la prima volta, a livello ciclistico naturalmente, nell’ineluttabilità della storia.
Ovvero la storia delle prime pioniere che già a metà dell’800 spingevano sui pedali e delle prime atlete che ancora il secolo scorso hanno dovuto affrontare pregiudizi che, anziché assopirsi nel tempo, sembravano aumentare e consolidarsi, nella strana prospettiva rovesciata di un futuro in decrescita.
Il libro, “Pedalare controvento” di Mario Cionfoli, ha il pregio di fotografare, attraverso il racconto del passato, lo stato dell’arte presente, in cui il ciclismo femminile, sì… sembra aver sconfitto il pregiudizio, ma anche no.
È illuminante in questo senso l’intervista a Edita Pucinskaite, grande campionessa, in chiusura del libro.
Edita afferma che “il ciclismo femminile nella grande storia del pedale… è tutt’ora figlio di un dio minore, ma non è questo il punto più dolente. Ciò che intristisce maggiormente è che quel figlio, pur restando piccolo e schiacciato da sua maestà, il GRANDE CICLISMO MASCHILE, avrebbe potuto e dovuto farsi rispettare di più“.
Come darle torto?
Improvvisamente, quindi, e con lo stesso sbigottimento di chi scopre di essere una delle poche pecorelle nere in un gregge tutto bianco, mi accorgo che non sono “Magni, il terzo uomo”, ma Laura Magni, una delle poche donne.
E scopro inoltre che il buon Alfredo Binda aveva detto, e pure in tempi non così antichi, che “lo sport ciclistico non è adatto alle donne; non è certamente elegante vedere una signorina sudata, senza grazia, spingere rudemente la macchina sballonzolando sui pedali. Su questo punto sono certo di avere concorde la maggioranza dei tecnici e degli sportivi“. Spendendosi poi in prima persona nei congressi internazionali di ciclismo per disapprovare pubblicamente quelle federazioni che avevano incluso nel proprio calendario stagionale di gare anche quelle di ciclismo femminile. Che fenomeno il Binda!
Mentre già il secolo precedente, nell’apparentemente più oscuro tempo delle gonne lunghe e delle crinoline, le donne in bici facevano già cose mirabolanti, come correre in pista o fare il giro del mondo in bicicletta per scommessa.
Insomma, da non credere: il pregiudizio si è formato successivamente, nel ‘900, e non agli albori di questo sport. Un po’ come se l’idea di estrema libertà che la bicicletta contiene fosse stata riletta come “pericolosa”, solo dopo minuziosi calcoli di quanto sarebbe costata, alla società, la possibilità che le donne potessero muoversi velocemente e in piena autonomia.
E adesso? Oggi c’è sicuramente chi crede ancora di dire qualcosa di originale affermando che le donne, in generale, non possono andare più veloci degli uomini, che è un po’ come dire che nel sollevamento pesi siamo meno dotate di chi ha almeno doppia cubatura muscolare. E c’è anche chi ti guarda ancora come se, anziché la tutina, indossassi la muta del sub in cima all’Everest. Però è sicuramente sdoganata l’idea che una donna possa praticare con successo il ciclismo. E per “successo” non intendo le coppe e le medaglie che si possono vincere in gara, ma la somma di quelle tante e piccole soddisfazioni personali che ti danno la certezza che stai facendo qualcosa che ti fa bene al corpo e alla mente.
Ho scoperto così di appartenere anche ad una nuova tipologia di ciclista-femmina. Non sono nata e cresciuta in bici, non ho mai praticato sport a livello agonistico, ma solo per puro divertimento (lo sci) e ho scoperto la bicicletta a oltre i 45 anni suonati. Esattamente come tanti coetanei uomini, un po’ workaholic come me, ho deciso di spingere sui pedali per fuggire veloce e leggera dai pensieri pesanti delle responsabilità e del lavoro.
Non ho mai quindi neppure sperato di raggiungere chissà quali risultati agonistici, ma godo da matti se riesco a conquistare un Qom su Strava.
Del resto il mio fiero papà, solo ieri mi ha detto: “chissà se da ragazzina anziché una bici da donna ti avessi comprato una bici da corsa cosa saresti diventata…”
Magari avrei una teca con qualche medaglia olimpica e un Giro Rosa nel carniere? Un bel negozio di biciclette da ex campionessa?
Eppure no, non credo. La mia voglia di correre è qui e ora. Ed è animata da tante leve mentali che a 12 anni non avrei neppure mai immaginato di avere.
Così una rinnovata consapevolezza di genere si impossessata di me. E quindi, garantito, alla prossima Deejay 100 non farò prigionieri!
L’immagine della cover è di Marion Michele per Unsplash.