Rileggere e vivere sulla propria pelle l’heritage di un grande marchio, sviscerarlo, possederlo, tiragli fuori l’anima per poterlo poi veicolare stilisticamente – attraverso il linguaggio di oggi – alle future generazioni, non è un lavoro semplice.
Richiede intelligenza, profonda conoscenza, cultura, eleganza, rispetto, coraggio, un sofisticato guizzo creativo oltre ad una spiccata competenza pratica ….anche business parlando.
E richiede conoscerne le radici, quelle dei costumi. E per Massimiliano Giornetti sono in questo caso quelli cinesi, che come un grande “dono” possono – è così nel suo caso – coincidere anche con un interesse personale fin da adolescente.
Perché Giornetti alla Cina vi è particolarmente legato fin da ragazzino con una sua dedizione profonda all’antiquariato cinese scelto con cura meticolosa nei mercatini di Portobello Road o in giro per il mondo.
E come una casualità gli incontri, fanno sempre aprire porte speciali che non vedi subito. Così il designer – che arriva dall’esperienza alla Direzione Creativa di Salvatore Ferragamo dal 2000 al 2016 – oggi dopo il successo della prima capsule realizzata per il brand di Hong Kong in qualità di Project Supervisor, è la guida stilistica delle diverse branches del marchio Shangai Tang, oggi di proprietà congiunta dell’imprenditore italiano Alessandro Bastagli, che ne è anche Executive Chairman, e del fondo di Private Equity di Hong Kong Cassia Investments.
La prima collezione Shanghai Tang firmata da Giornetti è quella per l’Autunno/Inverno 2018-19, presentata a Febbraio in occasione di Milano Moda Donna.
Per parlare al meglio del brand, del suo percorso e prossimi step ho incontrato il Direttore Creativo questa settimana per Focus On.
Come nasce il suo incontro con Alessandro Bastagli e l’inizio del suo nuovo percorso stilistico con Shangai Tang? Come molte delle ‘relazioni’ più stimolanti, l’incontro con Bastagli è nato per caso, complice un bijoux che avevo disegnato che indossava la compagna di Alessandro per la festa di 40 anni di un comune amico. Sono molto attento e curioso. Mi piace osservare la gente nei grandi spazi, guardare cosa indossano realmente le persone. Gli accessori mi colpiscono sopra ad ogni cosa perché penso che siano il dettaglio che definisce lo stile, l’elemento che maggiormente rivela la personalità di chi lo indossa. Vedere quell’anello su una donna e non su una modella in passerella, mi ha spinto a chiedere a Pati il perché lo avesse scelto. Non mi è mai interessato cercare delle muse nel mio lavoro, piuttosto disegnare delle collezioni immaginando donne reali che potessero indossarle nella quotidianità e non su un red carpet. La moda, a differenza dell’arte, vive con la gente e della gente. Posso affermare che da una amicizia ne è scaturita una relazione professionale. Con Alessandro condividiamo molti interessi e passioni: l’arte, la ricerca di un equilibrio estetico, la filantropia, non ultimo la propensione per la Cina. Non pensavo di collaborare con Shanghai Tang in maniera strutturata, piuttosto di mettere la mia esperienza professionale a disposizione di Alessandro e suo figlio Edoardo, più per passione ed amicizia, che per la reale necessità di tornare ad avere un ruolo formale. Avevo il desiderio di un progetto fuori dagli schemi del marketing e totalmente finalizzato al prodotto e Shanghai Tang mi ha conquistato per l’enorme potenziale che racchiude.
La Cina con i suoi costumi, le sue radici, le sue usanze? Che cosa l’affascina di questo popolo e della loro cultura e come li ha tradotti nella collezione? Sono collezionista di antiquariato cinese fin da ragazzino. A 14 anni spendevo tutti i miei risparmi la mattina prestissimo a Portobello Road, il momento migliore per fare affari e contrattare sui prezzi. Ho iniziato con piccoli pezzi Kangxi spaiati, per poi appassionarmi ai monocromi Blanc de Chine, Sangre de Boeuf, fino ad arrivare ai tappeti astratti che mi affascinano per la loro forza primitiva, lontana degli schemi decorativi e narrativi. Questa stratificazione di culture oggi si somma al mio gusto, al savoir-faire italiano, all’heritage di Shanghai Tang per creare un percorso simbolico che rappresenta il nuovo linguaggio del marchio. Shanghai Tang è a mio avviso l’unico vero brand cinese del lusso. Fondato nel 1994 da Sir David Tang, ha sempre rappresentato la fusione dei valori semantici di cui lo stesso Tang era portavoce: tradizione sartoriale cinese unita al massimo glamour occidentale. La mia idea è che il lusso oggi debba diventare sinonimo di eccellenza, cultura, design e qualità. Credo che il prodotto abbia essenzialmente il compito di suscitare e trasmettere emozione e senso dello stile. Suggerire un lifestyle aspirazionale in cui il consumatore vuole identificarsi. In questo contesto ho pensato di unire i valori della millenaria cultura cinese alla più alta espressione dell’artigianalità italiana, portando l’unicità del prodotto Shanghai Tang a diventare la nuova frontiera del lusso. Il marchio diventa pertanto portavoce di due culture distanti, ma accomunate da una medesima grazia. Un moderno viaggio sull’antica via della seta.
Mi racconta più nello specifico la collezione per l’Autunno-Inverno 2018-2019? La collezione Autunno-Inverno 2018 rappresenta un viaggio onirico dall’Italia alla Cina sulle tracce della memoria di due culture millenarie. Un’epica in cui avventurosi viaggiatori occidentali incontrano l’antica nobiltà cinese e il suo mondo magico e rituale, traboccante di suggestioni e repertori decorativi per creare una nuova estetica ricca di significati. È un viaggio immaginario che prende vita da forme pure ed essenziali per arricchirsi di broderies che mimano broccati e damaschi, ricami di borchie chiodate che incontrano lineari stilemi mandarini. L’animalier dei dipinti Ming si applica in dettagli di bordi, orlature e manopole, citando la mitica pelliccia dei leopardi delle nevi che accompagnavano gli aristocratici nelle battute di caccia a cavallo. È una danza dei fili, il vero ponte gettato tra L’Europa e le lontane terre dell’Impero del Dragone che attraverso magnifici carré di seta racconta la storia di due culture piene di fascino e mistero.
Una mia curiosità. Come si “combina” il proprio stile design con le esigenze e l’heritage del marchio? Come si trova il giusto balance? Prima di disegnare una collezione, mi immergo nella identità del brand, nella cultura che rappresenta, nell’heritage del marchio, pensando però ad un linguaggio che parli alle future generazioni. La mia formazione è stata fondamentale nel generare un approccio al design che non sia finalizzato ad inseguire le tendenze, ma piuttosto a produrre collezioni che riflettano la personalità del brand che li ha creati. Il mio è stato un percorso ‘sui generis’. Ho studiato fashion design al Polimoda di Firenze solo dopo una laurea in Lingue e Letterature Spagnole. Non è stata una folgorazione tardiva, ma piuttosto una ricerca culturale avvenuta attraverso esperienze e stratificazioni filologicamente differenti. Sono affascinato dalla contaminazione, dalla fusione di mondi ed estetiche lontane che si amalgamano dando vita ad una nuova forma di espressione creativa.
Da designer italiano come secondo lei, il mercato cinese e soprattutto le giovanissime – vivono lo stile, la moda, il glamour? In che cosa si differenziano per esempio dalle americane e le occidentali in genere? Una libertà di pensiero che, contrariamente a quell’appiattimento e standardizzazione di gusti che comunemente è associata ai consumatori asiatici, porta i giovanissimi cinesi ad una forma di comunicazione totalitaria finalizzata a mettere lo stile al centro dell’espressione del singolo. Questo è quello che maggiormente mi affascina nelle nuove generazioni. La spinta verso l’unico che riporta l’individuo al centro del processo creativo. Il desiderio di esprimere un carattere e una personalità. Dopo anni in cui il diktat del designer era totalitario, oggi il consumatore sceglie quello che meglio rappresenta il suo stile e la sua cultura. Da designer, trovo che questo dialogo interattivo che si è instaurato con i millennials sia la forma più alta e contemporanea di ispirazione nel mio lavoro.
Chi sono le clienti che indossano Shangai Tang? E soprattutto parlando più in generale, oggi nel 2018 con i tempi – a volte molto delicati – che cambiano, i ritmi quotidiani sostenuti, le donne che cosa chiedono ad un abito? Manca totalmente il desiderio e il legame con i sensi nella moda. Tutto è diventato eccessivamente sterile ed impersonale. Le donne chiedono oggi ad un abito di avere una forte personalità. Uno stile che le contraddistingua e le renda interessanti e uniche. Le clienti che indossano Shanghai Tang sono stufe di abiti cheap e di assomigliare a chiunque altro, vogliono difendere il diritto dell’immaginazione.
Quali sono i mercati dove vi state principalmente focalizzando? Il brand è nato ad Hong Kong nel 1994 e da lí, grazie alla visione cosmopolita di Sir David Tang, è approdato negli States, in Francia e in Inghilterra diventando il portavoce di una semantica all’epoca ancora sconosciuta ai più. Il marchio ha sempre mescolato stilemi tradizionali cinesi con la passione per l’arte tipica del fondatore. Colori pop abbinati a giacche da lavoro, facce di Mao impresse alla Warhol su Quipao. Negli anni 90 avere un pezzo di Shanghai Tang era un must che di ufficio ti associava al club dei ‘very selected’. Oggi la presenza del marchio è limitata ad una distribuzione esclusiva di retail. La mia idea è quella di allargare la presenza attraverso un canale wholesale molto selezionato. Il brand deve necessariamente essere legato a quell’idea di esclusivo e misterioso che è intrinseco nel suo DNA.
Quali sono i prossimi progetti che ci può anticipare? Sto lavorando ad un progetto personale complesso. Nella difficoltà di un mercato estremamente volatile, insicuro ed ambiguo, non mancano le proposte di moda. Manca però un prodotto qualitativamente elevato il cui posizionamento di mercato non passi attraverso mark up matematici, ma ragionati. Un prodotto che abbia una forte creatività e che si sottragga ai timing serrati di cui la moda è ormai vittima. Penso ad un marchio dal forte contenuto creativo e con un solido legame con il territorio. Il prodotto dovrà necessariamente suscitare emozioni, avere una forte componente legata ai sensi, riaccendere il desiderio nel consumatore, ritrovare quella parte di mistero ed esclusività che la larga distribuzione ha ucciso.