Matteo Galvan è tornato da qualche settimana da Rio de Janeiro, dove ha corso i 200 e i 400 metri, le sue gare d’elezione. A Rio Matteo è andato perché è il più forte quattrocentista italiano: ha corso i 400 metri in 45”12 secondi, record italiano stabilito lo scorso 25 giugno ai Campionati Italiani Assoluti che si sono tenuti a Rieti.
In quella città Galvan, vicentino classe 1988, vive da due anni, allenato da Maria Chiara Milardi. I 400 metri sono soprannominati ‘il giro della morte’ (in inglese the killing event) fra gli habitués delle piste di atletica, piccola nota di colore per dare l’idea di quanto sia dura una specialità che ti costringe a tenere un ritmo da velocista ma per una distanza ben più lunga di quelle della velocità pura. Basta parlare qualche minuto con Matteo per capire che non si accontenta mai: è infatti l’unico italiano in anni recenti a essere riuscito ad avere prestazioni di livello internazionale nei 100, 200 e 400 metri: in sintesi, tutte le specialità della velocità. A 28 anni gli obiettivi e i margini di miglioramento sono ancora tanti: scendere sotto i 45” sui 400 metri (il record mondiale attuale è 43” 03 ed è stato stabilito alle Olimpiadi di Rio dal sudafricano Wayde Van Niekerk), arrivare al meglio al prossimo appuntamento olimpico del 2020 e con quel misto di modestia, piedi per terra e spirito di sacrificio da profondo veneto e assoluta determinazione c’è da scommettere che li raggiungerà tutti. Intanto però lo andiamo a disturbare all’inizio delle sue (poche) settimane di riposo post Rio de Janeiro, perché l’occasione di sapere cosa significa fare le Olimpiadi in prima persona non la vogliamo perdere. Lo abbiamo intervistato e abbiamo scoperto che i signori della velocità hanno una compagna di vita davvero inaspettata: l’attesa.
Il 2016 è stato un anno speciale con il record italiano sui 400 metri e l’approdo alle Olimpiadi di Rio. Cosa ha significato per te? “Per me il 2016 è la conclusione felice di un ciclo che coincide anche con l’inizio di una nuova fase, un ciclo partito nel 2006, esattamente 10 anni fa, quando a 18 anni vinsi i campionati italiani under 20 nei 200 metri e Umberto Pegoraro, mio allenatore dell’epoca, e Carlo Vittori, storico allenatore di Pietro Mennea, mi dissero che vedevano in me il campione italiano del futuro, il ragazzo che poteva fare il nuovo record italiano e scendere un giorno sotto i 45” nei 400 metri. Lo dicevano dopo avermi visto correre ai campionati giovanili proprio a Rieti ed è stata una coincidenza speciale che quelle promesse si siano avverate proprio su quella stessa pista, che è poi il luogo dove mi alleno già da un paio di anni e fra i migliori in Italia perché permette di avere spesso le migliori condizioni per correre al meglio. La prima profezia si è avverata, ora lavoriamo per la prossima: scendere sotto i 45”.
Cosa hai messo in valigia quando sei partito per Rio de Janeiro e cosa hai portato a casa con te? “Sicuramente ho portato in Brasile una grande voglia di fare bella figura sul palcoscenico più importante per qualsiasi atleta, l’occasione per superare i propri limiti a tutti i livelli. A casa ho portato una mente liberata dall’adrenalina dell’obiettivo olimpico, serena per i risultati raggiunti, pronta per ricaricarsi e partire per il nuovo, lungo percorso che mi accompagnerà verso Tokyo 2020”.
Sei arrivato in seminifinale nei 200 metri, accanto avevi mostri sacri come Justin Gatlin, campione olimpico Atene 2004, la domanda è ovvia: cosa si pensa in questi momenti, mentre si aspetta sui blocchi? “Devo ammettere di essere molto competitivo, così quando mi trovo ai blocchi in mezzo a campioni assoluti mi carico ancora di più perché voglio dare tutto e fare il meglio che posso. Faccio molta più fatica nelle gare in cui basta magari il minimo per fare il risultato. A Rio quel giorno avevo un po’ di fastidi fisici e avevo accumulato molta stanchezza nelle gambe dalle gare del giorno prima, ma prima di partire pensavo solo a fare il massimo”.
Villaggio olimpico sì, villaggio olimpico no. Che atmosfera c’è nella città degli atleti? “Io sono arrivato al villaggio olimpico solo 3 giorni prima dell’inizio delle mie gare, le settimane precedenti sono stato a San Paolo per fare tutto il lavoro di preparazione e smaltire il jet lag. Quando sono arrivato, dunque, le mie giornate erano meno intense e non ho avuto difficoltà a vivere il villaggio olimpico che può avere controindicazioni molto pratiche e banali. Ad esempio: è enorme, molto più grande di quanto io avessi mai pensato, e per spostare da una zona all’altra, ad esempio per mangiare o fare una lavatrice, si impiegava molto tempo. Con il mio programma di allenamenti completo non sarei mai riuscito! Da un punto di vista umano è come trovarsi al centro del mondo, perché lì c’è davvero tutto il mondo, ed è un’occasione di confronto e di dialogo unica”.
Come è la tua giornata tipo? “Dipende sicuramente dalla fase in cui mi trovo, se vicino a una gara importante oppure no. In generale gli allenamenti sono 10 o 11 a settimana, ciascuno da 3 o 4 ore l’uno, e tutti molto vari: dalla palestra alla piscina, dallo stretching ai pesi, alle prove in pista. In questo modo la testa e i pensieri non si fermano su una cosa ma spaziano e così si è più leggeri. Ovviamente se si è un atleta professionista ci si comporta di conseguenza 7 giorni su 7, 365 giorni l’anno per cui le ore di sonno e l’alimentazione vanno curate sempre. Può sembrare strano, ma il corpo elabora allenamenti e prestazioni mentre si dorme per cui le ore di sonno sono fondamentali perché gli allenamenti siano efficaci! Ho un temperamento tranquillo e avere una vita regolare mi viene naturale, anzo: adesso che sono in vacanza quasi mi sforzo di sgarrare un po’ per sentire di più il ritorno agli allenamenti, ma faccio fatica. Trovo naturale per me la vita dell’atleta, nei suoi momenti più intensi come nelle lunghe fasi di preparazione, che chiedono tanta pazienza: la vita di un velocista è fatta anche di lunghe attese”.
Per migliorarsi funziona di più puntare un obiettvio preciso e quantificabile o allenarsi ogni giorno e vedere fin dove si arriva? “Io preferisco vivere alla giornata. C’è sempre, sottotraccia, un tempo migliore che si vorrebbe fare, ma per me non è un pensiero fisso: da ogni giornata cerco di prendere il meglio e so che, così facendo, mi avvicino sempre di più all’obiettivo. Chiaramente, quando si è a ridosso di gare importante si sta sempre più attenti a ogni misura, ma la vita di un atleta è fatta anche e soprattutto di lunghe attese, di preparazioni che partono anche da molto lontano: momenti che sembrano in contraddizione con la velocità ma che in realtà sono una preparazione, fisica e mentale, indispensabile”.
La tua vita sportiva è iniziata da calciatore ed è proseguita in pista. come succede che ci si scopre un talento? “Il calcio è una passione quasi innata: a 4 anni scalpitavo per iniziare a giocare e ad allenarmi in una squadra e trovavo insopportabile aspettare i 6 anni, età minima per cominciare veramente. Poi, intorno ai 16 anni, ci si è messo il destino sotto forma di campionati studenteschi a farmi entrare nel mondo dell’atletica. Io addirittura pensavo di propormi per il mezzofondo, che di solito è più congeniale per un calciatore, il professore mi ha invece fatto provare le specialità veloci e mi sono trovato nel 2004 terzo classificato ai campionati provinciali di Vicenza [Matteo è di Bolzano Vicentino, ndr], niente di eccezionale in sé ma era comunque un ottimo risultato raggiunto senza preparazione specifica. Sono stato notato da Mario Guerra, storico talent scout dell’atletica vicentina, che mi ha proposto di provare ad allenarmi davvero. Era giugno, la scuola stava finendo, il campionato di calcio anche e l’atletica era nel vivo della stagione così ho cominciato a frequentare sul serio le piste e, quando i primi risultati sono cominciati ad arrivare, non ho avuto più dubbi che quella della velocità fosse davvero la mia strada”.