Andiamo – anche solo per un attimo – oltre quella fotografia. La sua fotografia. Andiamo – anche solo per un attimo oltre le sue immagini: quelle da lei scattate.
Sue immagini. Immagini e opere che sono chiaro segno, puro e assoluto percorso, di un suo raffinato intreccio, lavoro e viaggio personale: tra arte, installazione, moda, reportage, famiglia, ritratto, bianco e nero, colore, design e molto molto altro… E dove tutto è equilibrio, armonia, linearità…
Andiamo per un attimo quindi, oltre il suo essere artista e fotografa … Partiamo proprio da qua. Perché gli scatti di Francesca Manca Di Villahermosa sono – a prescindere dalla loro bellezza indiscussa, a prescindere dalle sue mostre personali e collettive di successo – l’interessante e più complesso epilogo del racconto di una vita, delle influenze di una vita, delle atmosfere della sua vita. Vita incredibile che va raccontata attentamente e molto lentamente.
La vita di una donna straordinaria (lei) fotografa, artista, modella… dove il pilastro- cambiamento ha sempre avuto un ruolo primario e prepotente come lei stessa infatti mi dice: “Sono abituata fin da piccola a cambiare vita, luoghi, frequentazioni”.
E i cambiamenti passano e toccano per esempio Parigi – quella Parigi in parte bohémien in parte mondana – dove per anni ha vissuto ed è stata una tra le modelle più apprezzate del circuito moda. Dalle sue sfilate per Gaultier, alle adv per Nina Ricci. E ancora gli shooting davanti all’obbiettivo di maestri dell’immagine come Gilles Bensimon, Patrick Demarchelier, Giovanni Gastel, Dominique Issermann e tanti altri…
Ma anche la storia di una ragazzina che diceva di voler diventare una santona indiana, e che – con la sua chitarra e le poesie tormentate – a Laconi, piccolo paese dell’entroterra sardo non lontano dalle montagne della Barbagia dove si trasferì con la famiglia da Roma, si buttava in avventure un po’ da far west – quelle che si possono vivere solo in Sardegna. Ecco quindi le sue corse senza patente su strade di campagna o le gite a base di arrosto e formaggio con i vermi, i fiumi di vino Cannonau e le visite notturne (non autorizzate) al castello – diroccato nel parco – che un tempo apparteneva alla famiglia di suo padre, i marchesi Aymerich di Laconi. Cresciuta in una famiglia dalla spiccata creatività – con una nonna, Assia Busiri Vici Olsoufieff – che discendeva da una famiglia russa di nobile stirpe e che fu una grande ritrattista, e che oltre alla corte del Belgio andò anche in quella dello Scià di Persia per ritrarre Farah Diba…. Ecco dopo questo primo mix di racconti … è Francesca Manca Di Villahermosa il mio bell’incontro di questa settimana per Focus On.
Francesca iniziamo parlando di Cagliari dove lei ormai vive stabilmente. Sa che tantissime persone che ho conosciuto e che sono state in questa città anche solo una volta, ne sono rimaste talmente colpite da volerci tornare con regolarità se non addirittura viverci… Tutte mi hanno detto che è una città dove se anche ci vieni per lavorare, sembra sempre di stare in vacanza. Anche lei che ha vissuto per 12 anni a Parigi, ha viaggiato in tutto il mondo, ma alla fine si è stabilita qua per la maggior parte dell’anno, la pensa come loro? Caro Marco, dopo aver viaggiato tanto, ho fatto mio il proverbio “tutto il mondo è paese”. Cagliari è diventata la mia casa dal 1993 per motivi sentimentali dopo anni di vita nomade con base a Parigi, in molti si sono stupiti. Sono abituata fin da piccola a cambiare vita, luoghi, frequentazioni ed è stata una libera scelta tutt’ora felice. Certo a Cagliari può mancare quello stimolo culturale internazionale che trovi nelle grandi capitali, ma sei ricompensato da ritmi più umani, tutto è a portata di mano, anche la natura che entra prepotentemente dalle finestre della mia casa in centro città: vedo cieli, montagne, mare. Quando entra il maestrale sembra di volare con i gabbiani, spesso un falco si posa sulla persiana della finestra davanti alla mia scrivania. Questo per una donna che da ragazzina diceva di voler diventare una santona indiana è impagabile! La Sardegna in realtà mi ha stregato tempo fa quando con i miei genitori ed i miei numerosi fratelli e sorelle, sei figli in tutto, ci siamo trasferiti da Roma a Laconi, piccolo paese dell’entroterra, non lontano dalla Giara di Gesturi e dalle montagne della Barbagia, dove mio padre ora giovane ultraottantenne, gestisce ancora l’agriturismo Genna’e Corte costruito con grandi sacrifici insieme alla mia bellissima mamma che purtroppo è stata portata via nel 2000 da un male incurabile. Quando siamo approdati dal continente la prima volta, avevo quasi sedici anni e all’inizio mi sembrava di essere una confinata, prigioniera di un’isola senza nemmeno poter scappare perché tutto intorno c’era il mare. Passavo i pomeriggi dopo la scuola ad ammirare l’infinito dalla finestra della mia camera da letto suonando la chitarra, disegnando, leggendo e scrivendo tormentate poesie. Poi, piano piano ho cominciato ad entrare nella filosofia isolana, a vivere ed apprezzare le avventure un po’ da far west che si possono vivere solo qui: corse scalmanate senza patente su strade di campagna; gite a base di arrosto, formaggio con i vermi e fiumi di vino Cannonau per raccogliere i tronchi per l’enorme falò in onore di Sant’Antonio Abate ed il rientro in paese arrampicati su trattori giganti; i travestimenti con gli stracci che ci facevano somigliare a personaggi da corte dei miracoli per festeggiare il carnevale e relative scorribande bussando alle porte di tutte le case emettendo solo suoni gutturali e parole rigorosamente in sardo per chiedere dolci e malvasia; le visite notturne non autorizzate al castello diroccato nel parco che un tempo appartenne alla famiglia di mio padre, i marchesi Aymerich di Laconi; le fughe da scuola per andare a fare il bagno al fiume o sotto le cascate; la raccolta delle balle di foraggio a giugno con uno stuolo di amici arrivati appositamente da Roma per darci una mano; gli spietramenti dei terreni agricoli con l’emozionante ritrovamento di alcune tra le più belle pietre menhir prenuragiche, ora conservate nei musei e le visite ai siti archeologici più importanti dell’isola con mia madre grande studiosa ed appassionata della materia; le vacanze in un mare dove se ti immergi ed apri gli occhi non riesci a vederne la fine, neanche fosse cielo. Ecco, quando hai vissuto questo puoi anche andare ramingo per il mondo, ma l’Isola t’inseguirà ovunque, lo chiamano “mal di Sardegna”, io l’ho provato, esiste, in pochi ne sono immuni. Ho un bel libro regalatomi dall’editore Giuseppe Asuni, si chiama ” Sardegna quasi un continente” scritto da Marcello Serra ed illustrato dalle fotografie di Chiara Samugheo (che ai tempi del suo reportage sui costumi sardi passò anche da casa nostra), descrive con precisione la varietà e la ricchezza di questa isola.
Prima di parlare della sua carriera di fotografa, facciamo un breve flashback. Tra la metà degli anni 80 e i primi anni 90, lei è stata una delle modelle più apprezzate del sistema moda. Anni bellissimi nei quali il Made in Italy stava letteralmente “esplodendo”. Ciò che mi ha molto colpito della sua carriera, è stata però la sua scelta di un percorso… se vogliamo più trasversale. Lei, italiana, per esempio ha deciso infatti da subito di stare stabilmente solo a Parigi dove ha lavorato tantissimo soprattutto con i designer francesi. E penso per esempio a Jean Paul Gaultier piuttosto che a Nina Ricci e tanti altri. A Milano ci è sempre andata solo di passaggio e molto sporadicamente. Ha sempre fatto poche cose sempre mirate ed ad alto livello. Penso tra gli altri ai suoi lavori con Gilles Bensimon per Elle Francia, con Patrick Demarchelier o Dominique Isserman per Nina Ricci.. Sente di avere un animo più francese? Come ha iniziato il suo lavoro di modella? Mi racconta la sua storia? Sono stata spedita da mia madre a Parigi – fresca di diploma liceale – per passare una sorta di anno sabbatico, credo volesse farmi prendere una boccata d’aria internazionale dopo i quattro anni vissuti in campagna. Vivevo e lavoravo come ragazza alla pari a casa di un suo cugino. Di mattina frequentavo il corso di langue et civilisation française all’Università della Sorbonne. Sarei dovuta tornare in Italia all’inizio dell’estate per restarci ed invece dopo un intenso anno parigino in parte bohémien in parte mondano, dopo aver gironzolato al Beaubourg, al Louvre, al Jeu de Paume, al Palais de Tokyo, dopo aver visto una carrellata di film in lingua originale, concerti jazz, pieces teatrali , corse dei cavalli, il mitico concerto dei Rolling Stones e quello di Simon e Garfunkel, dopo aver ballato in discoteche dove succedeva di tutto, decisi di trasferirmi in maniera stabile in quell’incredibile città. I miei genitori mi diedero due mesi di tempo per trovare un lavoro ed una cara amica che conosceva la direttrice di un’agenzia per modelle, si offrì di accompagnarmici. Si da il caso che l’agenzia fosse la Elite Model Management di John Casablancas, la mia ambizione era vivere a Parigi ed iscrivermi all’Ecole du Louvre o alle Beaux Arts, non di fare la modella, ma devo dire che ho avuto fortuna! Ricordo che quel giorno i bookers dell’agenzia mi guardarono senza troppo interesse ma mi chiesero di tornare l’indomani per un test fotografico. La mattina dopo finii tra le mani di una truccatrice, rivolta verso la grande vetrata che dava sul cortile, senza uno specchio dove potermi guardare. Finito il make up, mi girai verso la sala a mi vidi riflessa nell’espressione sbigottita delle persone presenti…mi presero senza aspettare le foto del test! Il mio nome da modella divenne Julia Villahermosa. All’inizio mi faceva una strana impressione entrare negli uffici e vedere i muri tappezzati dalle copertine di riviste prestigiose con i ritratti di Carol Alt, Pat Cleveland, Andie Mc Dowell, Paulina Porizkova, le sorelle Dickinson, era buffo pensare di far parte di quel mondo ormai, un’altra me, fino a quel momento non mi ero mai nemmeno truccata e i maglioni me li confezionavo da sola! Per un po’ di tempo ho pensato che avrei lavorato come modella solo per un annetto o due, il tempo di mettere da parte i soldi necessari per fare gli studi che desideravo, poi il lavoro mi ha travolto e mi sono ritrovata a viaggiare intorno al globo con gente sempre diversa, in piccoli ecosistemi umani temporanei, molto interessante, intenso ed istruttivo. Un’ esperienza meravigliosa. Sono entrata a far parte del sistema moda in punta di piedi e così ho continuato per anni, professionale, affidabile, seria. Credo di essere stata un’ottima modella ed infatti ho potuto lavorare senza sosta per circa 12 anni. Da poco ho ritrovato la mia guida di Parigi con la mappa delle strade e dietro la copertina a matita c’è appuntato l’indirizzo del famoso Frank Horvat, uno dei tanti fotografi che normalmente noi modelle andavamo a trovare per i casting di lavoro. Allora incontravi tutti quelli che hanno fatto la storia della fotografia di moda, sembrava tutto così ovvio, beata incoscienza! Il mio primo lavoro fotografico è stato per Vogue Germania, il secondo per L’Officiel Paris e il terzo una doppia pagina su Elle Francia scattato da Gilles Bensimon. Con Patrick Demarchelier ho lavorato all’inizio degli anni 90 per L’Oreal, per un prodotto per capelli che è rimasto sugli scaffali dei negozi del mondo per almeno 10 anni. Con Dominique Issermann abbiamo scattato alcuni editoriali molto belli, una pubblicità per Maude Frizon, due eleganti campagne stampa per Nina Ricci. Amavo le sue foto, il suo modo di utilizzare la luce, lavorava con calma osservando a lungo prima di scattare, cercava di carpire qualcosa di più della sola bellezza. Le sue immagini sono sensuali e pudiche allo stesso tempo. Un altro fotografo che ricordo con piacere è stato Francis Giacobetti autore di foto storiche come la serie Zebras e anche di due calendari Pirelli, una volta ricordo dietro le quinte di uno shooting la sua bella ed elegante moglie Carole Bouquet. In Italia venivo quasi solo per direct bookings cioè se mi richiedeva espressamente una rivista o un fotografo, non mi piaceva molto l’ambiente che circolava intorno al sistema moda in quegli anni a Milano, tutte quelle persone che cercavano di trascinare le modelle ai party e in discoteca per il proprio tornaconto, lo trovavo un po’ triste e ne stavo alla larga. Ho comunque avuto modo di fare dei bei lavori con tanti fotografi eccezionali come Piero Gemelli e Giovanni Gastel. Milano trovo sia diventata nel tempo una città molto più bella, interessante e culturale di quanto fosse negli anni 80. Per quanto riguarda i grandi creatori non ho avuto modo di incontrarli spesso perché a causa del mio fisico sportivo ho fatto più la fotomodella che l’indossatrice. A Milano ricordo di aver sfilato per il talentuoso Romeo Gigli e per Callaghan allora disegnato da lui. A Parigi alla sfilata di Enrico Coveri si arrivava all’alba, una coppa di champagne prima dell’inizio dello show per abbassare i freni inibitori, il mio appendiabiti era a fianco a quello di the Body, la stratosferica Elle Mcpherson, il vestito da sposa l’ebbi io. Le sfilate che mi piacquero di più furono forse quelle per il mitico Jean Paul Gaultier, perennemente in maglietta da marinaio e con il sorriso sulle labbra. Adoravo l’atmosfera nel suo backstage, c’erano molte delle top model degli anni ottanta come Cindy Crawford e una Naomi Campbell agli esordi, alcune attrici come Beatrice Dalle, Grace Jones che veniva ad abbracciare lo stilista, una magrissima signora ottantenne pronta a sfilare con tutte noi, l’atmosfera era elettrica, tutte in fila frementi come cavalli da corsa, in passerella potevi camminare come volevi, alcune modelle erano addirittura irriverenti con il pubblico, un vero e proprio spettacolo. Per non parlare dei meravigliosi vestiti che esaltavano le curve femminili rendendole irresistibili. Credo che per la moda quello è stato sicuramente un periodo di grazia, c’era euforia, gioia di vivere, tutto sembrava a portata di mano. Magico.
Il suo giro di amici (e lei stessa viene da una famiglia molto creativa) erano artisti, attori, fotografi. Nel suo giro di amicizie c’erano anche Virginio, Valeria e Carla Bruni Tedeschi e tanti altri. Che ricordi ha del suo periodo parigino? I miei amici all’inizio erano soprattutto giovani ragazzi e ragazze, la maggior parte ancora studenti squattrinati, poi qualcuno ha fatto strada, molti in ambito creativo, eravamo un po’ come una famiglia, in molti vivevamo lontano da casa, con loro ho vissuto uno dei periodi più belli della mia vita. Uno dei ritrovi era la casa Bruni Tedeschi, non mi piace fare pettegolezzi, vi dirò solo che Virginio, il quale purtroppo non c’è più, era un ragazzo dolce, disponibile, sensibile, aveva un forte senso estetico ed artistico che ha sviluppato attraverso la fotografia ed un grande amore per il mare, quando è partito in giro per il mondo ci siamo un po’ persi. Di sua sorella Valeria ricordo la fragilità sconcertante, dote necessaria ai grandi artisti, come poi ha dimostrato d’essere. Carla era la più giovane, quando ha finito il liceo sapendo che facevo la modella mi ha chiesto un po’ di consigli su come cominciare, ha avuto presto le idee chiare ed è volata nel firmamento delle top model. Di lei ricordo la simpatia travolgente ed una grande forza di carattere.
Oggi suo figlio Federico (Federico Spinas), bellissimo oltretutto, ha appena iniziato a fare il modello, e sta già lavorando molto bene, ha appena sfilato per Dolce & Gabbana, Adidas ed è già molto richiesto, in un settore molto competitivo. Come pensa sia cambiato il mondo della moda in questi ultimi 15-20 anni e che suggerimenti gli ha dato per poterlo affrontare nel migliore dei modi? Le mie storiche agenti di Elite Parigi, una delle quali ancora con un posto di rilievo in seno all’azienda, mi raccontano che quando s’incontrano di tanto in tanto per un caffè amano sempre parlare dei bei tempi passati insieme a noi modelle di quegli anni, mi dicono che la qualità del lavoro di quel periodo forse non tornerà più. Siamo state in un certo senso delle privilegiate. il lavoro è cambiato tanto con l’apertura dell’Europa verso i paesi dell’est, un fiume di ragazze stupende e bisognose di lavorare si è riversato in occidente, creando così un specie d’inflazione di modelle e modificando le regole di mercato. Quando qualcosa abbonda gli si da meno valore e così nella seconda metà degli anni 90, a mio avviso, la modella è diventata una sorta di attaccapanni senza vita, a parte poche ragazze famose. Oggi forse qualcosa sta cambiando, mi sembra si cerchi di nuovo un po’ più di personalità. La moda si fa sempre specchio della società e quello che m’intriga molto ultimamente dal punto di vista fotografico è che si stia assottigliando esteticamente la differenza di genere, ci sono ragazze che potrebbero tranquillamente sfilare per la moda maschile e ragazzi per quella femminile, senza dover rinunciare per questo alla loro identità. Mio figlio Federico, pur essendo molto maschile, ha un viso con dei tratti belli come quelli di una ragazza e penso che potrebbe piacere molto al sistema moda attuale, non mi stupisce che sia stato scelto per sfilate importanti e ne sono felice per lui, credo che possa essere una bella esperienza e gli auguro tanta fortuna. L’unico consiglio, ma credo lo sappia già, è quello di rimanere sempre se stesso, tenere la mente lucida, qualsiasi cosa accada.
Ma passiamo ad oggi lei è una fotografa con un bel percorso e molto speciale. Si occupa non solo di fotografia legata all’arte e installazioni (penso ad alcuni suoi lavori esposti a Roma), ma ultimamente è anche impegnata come fotografa nei set cinematografici. Mi racconta come è nato il suo amore per la fotografia e come ha deciso ad un certo punto di stare dietro l’obbiettivo? Fin da piccola l’unica cosa che sapevo era che volevo visitare il mondo e diventare un’artista. Il primo desiderio si è avverato, l’altro è in continuo divenire. Per anni durante i miei viaggi da modella ho portato appresso una reflex Minolta presa in prestito da un amico, ho uno scatolone pieno di diapositive scattate in quel periodo. Chiedevo di volta in volta delucidazioni tecniche soprattutto agli assistenti dei fotografi con cui lavoravo. Ricordo perfettamente quella sensazione di frustrazione che provavo a volte nell’essere oggetto e non soggetto, era il desiderio inconscio di essere al posto di chi mi fotografava. Qualche anno fa ho comprato una “compattina” digitale per fare foto durante le vacanze. Con la stampante molto basic che avevo a casa ho scoperto che il lavoro di post produzione che un tempo faceva il laboratorio di stampa con grandi difficoltà, ora si può fare in camera chiara grazie al digitale. Ho perso sei mesi di sonno a provare tutte le possibili varianti su ogni scatto di figli e nipoti immersi in acqua e da lì è nata la prima mostra ideata con mio fratello Jaime, talentuoso architetto che ogni tanto si mette in gioco artisticamente per provare nuovi materiali. Ho stampato dieci gigantografie di intricate elaborazioni fotografiche su banner pvc e lui ha fatto altrettante sculture in resina con personaggi stampati in ABS 3D. Abbiamo chiesto a nostra sorella Caterina, storica dell’arte, di farci da curatrice e a maggio 2009 siamo andati spavaldi in mostra alla galleria Monty & Company di Roma. La mostra si chiamava “Corpi Liquidi” e due opere campeggiavano in contemporanea da Camponeschi in Piazza Farnese, per il giovedì d’arte dell’Electronic Art Cafè, importante contenitore d’arte curato dal bravissimo Umberto Scrocca e sotto l’egida di Achille Bonito Oliva. Dopo poco ho acquistato la mia prima reflex digitale con lo scopo di fotografare per avere del materiale da poter sfruttare artisticamente, fino a che il morbo della fotografia non si è installato definitivamente nel mio sangue e così ho deciso di diventare il più brava possibile. Ho la fortuna di collaborare spesso con amici bravi e generosi di consigli come il fotografo Adriano Mauri e l’artista Sergio Raggio, tutti e due precisi e severi. L’anno scorso mi sono trovata un po’ per caso sul set del film l’Accabadora, stavano girando in città. Chiacchierando con il produttore è venuta fuori l’idea di un progetto fotografico legato alla promozione del film e così mi sono ritrovata a ritrarre tutti gli addetti ai lavori per una settimana. E’ stato molto bello perché mi ha in parte ricordato l’atmosfera che si respirava sui set fotografici. Il mio ritratto con la macchina fotografica in mano è stato scattato in quell’occasione da Nicola Casamassima, bravissimo fotografo di scena. In Sardegna si sta sviluppando un fiorente mercato cinematografico, l’isola si presta, grazie al clima e alla luce stratosferica anche nelle giornate di brutto tempo, ad essere un gigantesco studio all’aperto e le maestranze locali sono sempre più professionali e preparate.
Quali sono i tratti che caratterizzano il suo stile fotografico? Lavoro in maniera un po’ schizofrenica su due binari paralleli che s’incrociano continuamente, progetti artistici e fotografici, l’uno prende il sopravvento sull’altro e viceversa. Permettetemi di citare una frase che ha scritto sulle mie immagini Piero Mascitti, storico collaboratore di Mimmo Rotella, direttore della sua fondazione ed ora anche direttore della fondazione Giosetta Fioroni. Piero è una persona colta e di grande sensibilità, amico recente che apprezzo molto.
“Francesca nei suoi scatti recenti come fotografa, in un potente uso dell’immagine dall’intensità introspettiva, non fotografa volti o persone ma riesce a indagare l’animo umano…”
C’è sempre una componente fortemente inconscia in quello che faccio.
Tra i suoi lavori ricordiamo le mostre a Roma, nella stessa Cagliari e tante altre. Mi racconta il loro filo conduttore e quali tra queste é quella alla quale é particolarmente legata? A Roma oltre alla mostra Corpi Liquidi ho partecipato ad un paio di collettive e collaborato spesso agli eventi dell’Electronic Art Café, sono molto grata ad Umberto Scrocca perché mi coinvolge regolarmente ai suoi stimolanti progetti. Per quanto riguarda Cagliari ho un ricordo molto bello di tre installazioni fatte in tre tempi diversi dell’anno nella magnifica Chiesa della Speranza, dedicata alla Madonna in attesa del Bambino. E’ stato molto interessante vedere le reazioni disparate dei visitatori anche quelli che passavano di lì per caso, nessuno rimaneva indifferente. Sono stati tre inni alla vita creati inizialmente in maniera inconscia: il primo è un omaggio alla madre intesa come origine di vita, alla Madonna, ma anche a mia mamma, donna fertile e grande studiosa del culto della Grande Madre neolitica sarda; il secondo rappresenta la croce della madre per le difficoltà del figlio, è stato creato in onore di una mia cara amica che aveva appena perso il suo, ma è dedicato in generale alle difficoltà che una madre può incontrare lungo il cammino di crescita dei figli; il terzo è un inno alla gioia di vivere dei bambini, ho fotografato i miei figli ed i loro cugini per un’estate intera mentre volavano in mare da uno scoglio, ad alcune foto ho aggiunto delle belle ali seicentesche. In tutte e tre le installazioni così come nella maggior parte delle opere di quel periodo compresa una gran bella tripla personale fatta a Torino nel 2011 nella prestigiosa galleria Zabert con amici dei tempi parigini, il filo conduttore è sicuramente l’acqua, simbolo di vita.
Quali sono i suoi prossimi progetti fotografici? Con la mostra “Pop Up Revolution” del luglio 2014 al museo di Porto Cervo alla quale ho partecipato timidamente con una mia opera affianco a quelle di Andy Warhol, Keith Haring, Mimmo Rotella, Shepard Farey e di un collettivo di artisti italiani provenienti in parte dalla street art, ho cominciato un lavoro sulle “apparenze” ancora in cantiere. La mia opera infatti rappresenta una pecora sarda che si fa bella travestendosi da mucca di Andy Warhol per poter essere esposta al suo fianco e s’intitola ” cow wallpaper” come quella del genio della Pop Art. Dal punto di vista fotografico non nego che mi piacerebbe molto prima o poi stare finalmente dietro la macchina fotografica per un progetto di moda, chissà?
Una mia curiosità. La sua è una famiglia molto particolare e dalla spiccata creatività. E’ vero per esempio che sua nonna era una famosa ritrattista che viaggiava in tutta Europa e che ha ritratto persino Fabiola del Belgio, una grande viaggiatrice che voi ragazzini all’epoca la chiamavate Nonna Jet? Trovo il tutto fantastico… E’ vero, non basterebbe un intero trattato per raccontare dei nonni. Andrea Busiri Vici mio nonno materno proveniva da un’importante famiglia di architetti romani ed è stato un rinomato critico d’arte, mia nonna Assia Busiri Vici Olsoufieff discendeva da una famiglia russa di nobile stirpe, un suo antenato, il conte Shouvaloff nel settecento fondò l’Università di Mosca e L’Accademia delle Belle Arti di San Pietroburgo. Nonna Assia, donna anticonformista e creativa, figura dal grande carisma, idolo mio, dei miei fratelli e sorelle e di tutti i miei numerosi cugini, è stata una grande ritrattista, credo che quasi tutti i salotti romani possiedano uno dei suoi famosi ritratti a pastello. Ha immortalato famiglie importanti anche a Milano, è stata alla corte del Belgio a lavorare e poco prima della rivoluzione islamica andò per due lunghi soggiorni alla corte dello Scià di Persia dove ritrasse anche la Farah Diba. Mia sorella Alessia è stata allieva di nonna e ora seguendo le sue orme esegue dei ritratti stupendi anche ai clienti canini, come si usava fare in antichità!
Un’ultima domanda. Come si rilassa quando non fotografa? Che cosa le piace fare? Beh, per me fotografare è rilassante, in certi momenti ne sento proprio la necessità! Comunque sono tante le cose che mi piace fare e che mi interessano e, a parte le necessarie incombenze quotidiane che mi occupano tanto tempo, cerco di fare soprattutto quello che mi piace. Anche incontrarti per questa intervista è stata una gioia e ti ringrazio. E qui torniamo alla prima domanda che mi hai fatto Marco: ebbene sì, sono d’accordo con quelli che credono che a Cagliari ci si possa sentire sempre un po’ in vacanza!