- Corse di questa settimana :1
- Cani incrociati: 0
- Cani che hanno attentato ai miei polpacci: 0
- Biciclette sul marciapiede in mezzo ai piedi: 0
- Scontri evitati: 0
- Monopattini: 0
- Scontri con altri runners: 0
- Scontri con passeggini: 0
Ebbene sì.
L’ho fatta.
La maratona di Milano il 3 di aprile.
L’ho corsa tutta fino al traguardo in Corso Venezia ed è stato come rinascere. Svegliarmi dal torpore di una vita che non mi apparteneva.
E’ stato tutto così perfetto che ancora non mi sembra vero.
Una maratona che mi ha divertito e mi ha fatto stare bene come quella di New York nel 2015.
La mia prima in assolto. La più bella, la più significativa. Fino ad oggi.
Con questa siamo a quota 10 e molte altre ancora a venire.
La domenica sono uscita di casa all’alba, bardata nel mio giubbino impermeabile e nella felpa di Valeria. Quella che ti arriva a casa quando ti rifiutano al ballottaggio della Maratona di Londra. Quella dei LOOSERS. Valeria la voleva dare in beneficienza, io me ne sono appropriata il weekend in cui sono stata a trovarla in UK.
Sacca di plastica trasparente con cambio, barrette, fazzoletti e cellulare a tracolla che ho lasciato allo stand Urban Runner al Parco Montanelli e il biglietto ATM in tasca. Non ero molto fiduciosa di arrivare al traguardo, ma mi sono detta “vediamo che succede”.
Serena, tranquilla, con fare preciso e metodico di gesti fatti mille altre volte prima di una gara, ma senza quell’affanno da ansia da prestazione.
Ho imparato che nella vita non tutto si può tenere sotto controllo e agitarsi non porta quasi mai a nulla di buono.
Direzione zona di partenza con un’idea ben chiara in testa: ai primi dolori, alle prime avvisaglie di insofferenza, al primo pensiero negativo, sarei uscita dal percorso e con nonchalanche avrei preso il primo mezzo utile per tornare a casa.
La maratona non era un’opzione, non lo era mai stata. Era solo allenamento. Ed invece, capitano quelle giornate perfette in cui ogni cosa fila liscia senza intoppi, come un percorso già segnato che mi sono limitata a seguire fino alla fine.
Gli amici fuori dagli ingressi blindati di Palestro, gli abbracci, i saluti, i selfie che stemperano la tensione pre-gara. E poi la tappa ai bagni chimici senza troppa coda, ma nell’attesa un’idea brillante condivisa con le sconosciute in fila con me: prossima maratona una bella tuta dei RIS non me la toglie nessuno, non per sentirsi in una serie TV americana ma per stare al caldo nell’attesa della partenza e toglierla e buttarla ai bordi della strada, pochi minuti prima del VIA.
Di solito mi porto capi di abbigliamento usati che andranno poi ad associazioni benefiche. Un’usanza per la verità che ho trovato più praticata all’estero che non in Italia.
La volta scorsa con Valeria (di Roma), avevamo optato per il sacco nero dell’immondizia, ma a questo giro mi sono dimenticata di comprarlo. Per la verità speravo in temperature più miti, ed invece ho trovato nubi che minacciavano pioggia e freddo. Ripensandoci, col senno di poi, meglio così. La temperatura è stata perfetta per tutta la gara.
Clima inglese. Nuvole, sole pallido a tratti, vento gelido e niente pioggia.
Appena varcati i cancelli per arrivare nel mio box di partenza, mi prende un groppo alla gola, e un carico di emozioni che riemergono. Da aprile 2019 non mettevo un pettorale, da aprile 2019 non correvo una maratona… e non fu la mia gara migliore. Ma ero a Londra e per quanto l’abbia camminata per oltre un quarto del percorso, ne vado fiera perché ho assaporato ogni singolo miglio della mia città del cuore. E sono arrivata fino alla fine per prendermi la medaglia.
Cerco il cancello numero 5, in realtà cerco i palloncini di Valentina, amica, pacer delle 5 ore. Ci siamo sentite la sera prima per darci appuntamento in griglia di partenza. In quella telefonata ho deciso che l’avrei corsa al suo fianco e non appena la incrocio e la abbraccio su Corso Venezia, sento che si, quei 42.195 metri li avrei corsi tutti con lei, grazie a lei.
Pochi minuti e partiamo. Quei metri di viale blindati da due file di persone che fanno il tifo per noi maratoneti è qualcosa di indescrivibile: grida all’unisono che ci incitano come se fossimo gli eroi della giornata e forse forse un po’ eroi lo siamo. Per chi non corre, per chi non conosce il significato di fare un viaggio mentale e fisico di oltre 42 chilometri: siamo eroi, siamo marziani, siamo qualcosa di inconcepibile a volte, senza contare l’ammirazione di chi non lo farà mai nella vita.
Da lì in poi è un susseguirsi di emozioni infinite. Nelle zone cambio delle staffette, partite mezz’ora dopo di noi, rivedo amici che tra uno sguardo all’orizzonte alla ricerca del compagno di squadra e uno verso di noi, non perdono occasione per mandarci il loro supporto e il loro affetto spronandoci ad andare avanti e a non mollare anche quando la fatica inevitabilmente comincia a farsi sentire. Caldo, stanchezza, spossatezza, dolore alla pianta dei piedi, (perché poi ho messo quei calzettoni pesanti?), vesciche e fame.
Perché la maratona comincia al 30mo chilometro. Quando il fisico comincia a contare gli acciacchi e a cedere, la testa diventa fondamentale. Ti spinge a non mollare. In quel momento io entro come in uno stato di trance, cerco di non pensare a nulla legato alla corsa per non finire in loop negativo di commiserazione.
Li si vedono persone con i crampi, persone che si ritirano, quelli che hanno tirato troppo all’inizio e ora non ne hanno più e nemmeno la testa può fare nulla.
Ma il gruppo, sì. Il gruppo affiatato e fa la differenza.
Ed è verso il 32mo che ho incrociato l’amico Patrizio con le lattine di Coca-Cola Zero commissionate il giorno prima.
Ci ha risvegliato dal torpore e ci ha data la carica per completare i chilometri mancanti. E mentre ci passavamo le lattine, qualcuno ha cominciato a raccontare barzellette, racconti personali, battute di ogni tipo verso noi stessi e verso gli altri, soprattutto verso gli automobilisti imbruttiti attaccati al clacson in Corso Sempione… e poi applausi, le grida di auto-incitamento e in tutto quel caos, vedere scorrere ai lati della strada i numeri dei chilometri percorsi è stato un crescendo di emozioni.
Alla curva del traguardo in Porta Venezia, ho iniziato a singhiozzare, poi a ridere e quando il gruppone compatto ha tagliato il traguardo tenendosi mano, non sono riuscita a trattenere le lacrime.
Quella di Milano non è solo un’altra maratona portata a casa. Quella di Milano è una maratona ricca di significati dalle mille sfaccettature e di grandi conquiste ma anche di grandi certezze. La forza del gruppo e dell’amicizia.
Perché la corsa è certamente uno sport solitario, ma praticandola si scopre molto presto quanto sia bello farlo in compagnia. Faticare insieme, creare legami solidi e profondi destinati a rimanere nel tempo anche tra persone che nella vita normale non avrebbero praticamente nulla in comune.
Sono pronta per la prossima.