Cari anni ’90,
ho una bella notizia per voi: relegati nell’oblio per direttissima, state tornando di moda! Ci sono voluti i canonici vent’anni, quelli che servono agli adolescenti di allora, i big spender di oggi. Certo, il mercato ha dovuto chiudere un occhio perché i quarantenni non è detto che ora siano proprio proprio i big spender dei tempi d’oro, ma in compenso per i millennials siete una novità e una buona paghetta può rivaleggiare dignitosamente con il pil di un certo numero di partite iva.
Ritorna con voi l’estetica sexy emaciata, quella in cui il nero cola e passa dagli abiti, ai tatuaggi, agli occhi. Tornano le camicie a quadri, una certa trasandatezza. Le barbe hipster si accorciano, tutto il vocabolario estetico della noncuranza viene sfogliato ad ogni apertura di armadio.
C’è qualcosa che manca però in ripescaggio di foto, musiche, facce, angeli caduti. La sensazione è che portaste con voi qualcosa di più che una vaga malinconia fin de siècle. Magari solo perché siete stati l’ultimo decennio analogico della storia, anche un pò crudo e spietato e per questo straordinariamente romantico: poco trucco, molto sporco, corpi esposti, una sensualità intesa fatta (anche) di sudore e occhiaie, parbleu.
Avete fatto diventare piercing e tatuaggi un’abitudine quando ancora si litigava parecchio in casa per un minuscolo anellino su una narice. Il corpo è diventato la tela su cui dipingere, la tavoletta bianca su cui scrivere e incidere, un posto che racconta che vita si fa, segnato, bello a modo suo, un po’ arrabbiato di sicuro, incerto sulle gambe anche. Con voi, Chuck Palahniuk ha scritto di Fight Club e ci ha regalato pagine di indimenticabili pugni nello stomaco. Piccoli film indipendenti come Clerks hanno inaugurato un nuovo sguardo senza filtro e senza giudizio, forse. Fotografia, cinema, letteratura, arte sono andate avanti per sottrazione, in un togliere continuo che alla fine arrivava sempre lì: al corpo, da toccare, da muovere, da scrivere.
Cambia tutto, subito pare addirittura in meglio però. New Economy, Bill Clinton, Steve Jobs e Bill Gates, eccola la rivoluzione vera, collegarsi con l’Università di Sarajevo durante la guerra in Bosnia, leggere in diretta e per la prima volta le parole di studenti come te che però sono sotto le bombe, e chiudere il pc perché è tutto molto forte, incredibilmente vicino.
Imparare da soli, di notte, a fare web design, programmazione, grafica. Divertirsi, far arrabbiare le fidanzate ma poi farne un lavoro, convinti per l’ultima volta del secolo di avere di essere su un treno invincibile. Ci si diverte parecchio quando è così.
Il web è anche musica a costo zero, musica da dovunque e senza filtro. L’inizio dell’indie music, che ci accompagna saltellante al 2000, e anche il germe della sua fine: se sa di buono, ora nulla resta per pochi a lungo ed è assai meglio così.
E mentre il grunge condensava e faceva precipitare, il trip hop scioglieva i nodi e dissolveva i pensieri, lasciando un lieve retrogusto inquieto. La leggerezza dei Blur non era poi così distante da quella degli Smiths, meraviglioso humour inglese pensante da risate a denti stretti.
Avevate dentro un sacco di musica, cari anni ’90. Musica da ascoltare, ballare e imitare, cover band ogni cento metri. Non c’era nessuno che non avesse mai suonato uno strumento, che non avesse cercato di creare almeno due o tre gruppi, che non avesse okkupato il garage di famiglia per provare improbabili riff di chitarra a uso e consumo dell’uditorio femminile (il palcoscenico fa miracoli nel moltiplicare il sex appeal del compagno di banco fino a quel momento del tutto trasparente). Anche lì, il corpo non si risparmia fra sudore, birra, ormoni e sigarette varie.
A pensarci, bisognerebbe spruzzarla un po’ di eau de garage sulle foto di quegli anni, sarà anche poco chic ma sa di vero. Spruzzarla o rifarla. In qualche garage ci sarà chi ci proverà a suonare quei pezzi adesso che tornate di moda, immergendosi in atmosfere leggermente amare, dolcemente arrabbiate, romantiche suvvia. Dai, anni ’90, che ce la fate anche voi a farvi ricordare.